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Non c’è Cina che tenga, Usa über alles
Contro ogni senso comune – non ci può essere una fine
subito, agli inizi, delle potenze se sono “emergenti” - una argomentazione non priva
di pezze d’appoggio. Anzi, nella scrittura che lo studioso adotta, una
conclusione a cui spingono fatti e dati. Che non mancano.
Il “sorpasso cinese” (sugli Stati Uniti come superpotenza
mondiale) era ipotesi fondata nel primo decennio del millennio. Quando il pil
cinese balzò da 12 al 41 per cento del pil americano: una progessione impressionante,
che avrebbe dovuto portare a pareggiare e superare il divario nei quindci anni
successivi.
Negli stessi anni crescevano tutti i Brics: India e
Brasile raddoppiavano il loro pil in percentuale di quello americano, e la
Russia faceva perfino di più, lo quadruplicava. Nel decennio successivo la rincorsa
è continuata, ma a ritmi e in proporzioni più contenute. Il 41 per cento cinese
galoppa ancora ma non raddoppia: nel 2020 è al 70 per cento del pil americano. E
in declino - nel 2024 è retrocesso al 64 per cento.
E non solo la Cina, scema il peso di tutto il mondo australe
nei cofronti dell’economia americana: Africa, America Latina e Sud-Est asiatico
riducono il loro pil combinato dal 90 al 70 per cento del pil americano.
La supremazia americana è confermata da tutti gli
altri indicatori (Beckley si limita a quelli economici, il confronto militare
non si pone nemmeno). I profitti del settore tecnologico sono ameircani per oltre
la metà del totale mondiale – sono cinesi per una percentuale minima, il 6 per
cento. Il dato più straordinario vede il mercato interno americano, il mercato
di consumo, maggiore di quello cinese ed europeo sommati. E poco dipendente dalle
esportazioni: l’America è il maggiore mercato al mondo per le esportazioni di
ogni altro paese o area, ma dipende poco dal commercio estero, dalle
esportazioni: l’export pesa per un decimo sul pil americano, su quello cinese per
il 30 per cento - la Cina è vulnerarabilissima ai dazi.
È il saggio di apertura della rivista. Beckley, un
professore di Scienza Politica, membro e animatore dell’American Entreprise
Institute, un think thank conservatore, trova un dato positivo, favorevole
agli Usa, anchne nel debito. Che come si sa è gigantesco, e cresce smodatamente
– anche prima del Trump 2. Il debito che conta, che incide sul valore della moneta
e sula fiducia dei mercati finanziari, è quello aggregato, pubblico e privato.
Che in America è elevato, il 250 per cento del pil (il doppio di quello ialiano,
per farsene un’idea), ma la Cina non sta meglio, e anzi molto peggio, col 300
per cento del pil.
Michael Buckley, The Stagnant Order and the End of
the Rising Powers, “Foreign Affairs” nov-dic.2025 (leggibile anche in italiano,
L’Ordine stagnante e la fine delle potenze emergenti)
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