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mercoledì 18 luglio 2012

L’unità fu opera del Sud

Garibaldi non sbarca in Sicilia per conquistarla. Non lo può, con un migliaio di volontari, che combattono frontalmente alla baionetta e si fanno uccidere, contro un esercito di decine di migliaia di uomini, “come vuole tutt’oggi una rappresentazione inverosimile”. I Mille “sono venuti per appoggiare un’insurrezione popolare, trionferanno appoggiandosi su un’insurrezione popolare”. Endemica da quarantacinque anni contro i “napoletani”. Rei di avere cancellato la costituzione che essi stessi avevano dato – dovuto dare su pressione inglese – nel 1812. Con un rinfocolamento nei mesi precedenti lo sbarco, organizzata da Rosolino Pilo, Corrao, La Porta, Riso. Con molti preti e frati, annoteranno i massonissimi Bandi e La Farina. Che si aspettano dall’Italia molto di più dell’unità, aggiungerà Abba: la giustizia, anche sociale. “Palermo è l’unica città italiana a insorgere nel ’60 nello stile del ‘48”: Garibaldi nelle sue memorie ne ammirerà la compattezza e la determinazione, senza mai una defezione o un tradimento, specifica, a differenza delle altre province italiane nel ’48-’49. Quando Garibaldi risbarcò in Sicilia, nel 1862, l’entusiasmo popolare a Palermo fu immutato, malgrado le delusioni. Ma fu bloccato, il 20 agosto, dallo stato d’assedio in tutto il Sud. C’è un senso, conclude Lupo, se “la grande letteratura… che esprime la delusione per una rivoluzione ridotta a trasformismo” è siciliana, di De Roberto e Pirandello – non “Il Gattopardo” giustamente, che è tutt’altra cosa: non è che la Sicilia riduce tutto a trasformismo (come vorrebbero i “gattopardi”, aggiungeremmo, Sciascia compreso), è che la Sicilia voleva una rivoluzione e ha avuto la mafia e il trasformismo.
Un rovesciamento radicale, e tuttavia una verità. Su questa verità, semplice quanto trascurata, ricostruita su pubblicazioni in commercio ma evidentemente fuori corso, lo storico della mafia fonda la ricostruzione dell’unità d’Italia nel momento topico della “discesa al Sud”. Fuori da leghismi e borbonismi, le solite polemiche facili. Sarà questo probabilmente il contributo più nuovo e utile delle celebrazioni del centocinquantenario. Con molte novità, oltre al conflitto tra Napoli e la Sicilia, le radici dell’autonomismo. Anzitutto il ripescaggio, con l’autorevole avallo da primo storico della mafia, del fil rouge di Lucy Riall, “La Sicilia e l’unificazione italiana”, uscito nella disattenzione e dimenticato: la creazione e l’uso della mafia a opera del nuovo Stato italiano, contro ogni politico di opposizione. Un’altra novità è il carattere politico, non sociale né etnico, del brigantaggio.
Una novità non da poco è contenuta nell’“Introduzione”: si può dire il Mezzogiorno vittima di se stesso. Per la reazione seguita nel Regno delle due Sicilie alla prima costituzione “italiana” promulgata nello stesso Regno dopo i moti del 1848. Una reazione radicale, opera dei vecchi liberali del 1820: Carlo Filangieri, figlio dell’illuminista, il giudice Pietro Calà Ulloa, Giustino Fortunato nonno. Mentre l’Italia si modernizzava nel decisivo dodicennio successivo. Non tanto con le ferrovie o le industrie quanto con le leggi. I patrioti e gli innovatori, anche moderati, finirono in esilio, reale o figurato, “abbandonarono” il Sud. Che non ha mai colmato il gap di classe dirigente – ha avuto personalità di spicco, ma su un magma politico informe.
Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli, pp. 184 € 16,50

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