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martedì 18 giugno 2019

Letture - 387

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Brexit – Gesumino Pedullà, fratello maggiore di Walter, antichista, confinato dal fascismo ad Alatri, alla Liberazione incontra in qualità di fiduciario del Cln gli inglesi di Montgomery. Che erano “inglesi, scozzesi, polacchi, indiani”. Il fiduciario del Comitato di Liberazione doveva trattare con due ufficiali in gonnellino. I quali però non erano scozzesi ma indiani, e un problema di lingua di creò, risolto provando il sanscrito, “che Gesumino aveva studiato con Tucci”. È uno dei racconti di W.Pedullà, “Quadrare il cerchio”, pp. 229-230.

Campanella –I 450 anni della nascita l’anno scorso sono passati inosservati. Nessun contributo, nemmeno di maniera. Su un personaggio che è stato autore “di più di cento lavori, qualcosa come trentamila pagine”, notava Luigi Firpo nel 1968, per i 400 anni. O per questo è inclassificabile? Firpo, che molto su Campanella ha lavorato, lo trovava al contrario ben lucido. E anche di buon carattere, scriveva sempre nel 1968: “Al di là del suo pensiero e dell’opera tanto ricca e varia, egli resta per l’Italia un raro esempio di tempra morale, un ruvido carattere inflessibile”. Insomma, se non altro per il carattere, avrebbe meritato - o è il carattere che esclude?
Naturalmente non c’entra il leghismo trionfante, Campanella avrebbe potuto benissimo essere ricordato a Napoli o in Calabria o altrove, magari dalla stessa chiesa che per quarant’anni ha perseguitato il suo geniale fedele domenicano.     

Catania-Milano – Un folto gruppo di catanesi puntò direttamente, con l’unità, su Milano. Un’attrazione perpetuata negli affari - con la farmaceutica prima, ora con le micro e nanotecnologie – ma agli inizi letteraria: Verga, Capuana, De Roberto saltarono Roma per Milano. Anche Brancati, poi romanizzato, aveva puntato prima della guerra su Milano, fino al “Corriere della sera”. Vittorini era di poco distante, di Siracusa. L’asse si è interrotto dopo la guerra ma perché Catania, già prolifica, non ha più generato scrittori.
Per primo era partito Bellini, il primo e maggiore catanese, da Napoli dove aveva fatto il conservatorio: il genio dei direttori artistici, Barbaja, lo scritturò a venticinque anni per la Scala, dove debuttò l’anno dopo, nel 1827, con “Il Pirata”, seguito nel 18289 da “La Straniera”, due gran di successi. I primi di otto anni proficui, che culmineranno nel 1831 con “La sonnambula” e “Norma”.

Cocaina da Vienna – Un gigolò ricattatore gira nel racconto “Il rubacuori” di Edgar Wallace armato di due revolver “acquistati al Cairo da un uomo che contrabbandava cocaina da Vienna”. Si direbbe l’inverso, che a Vienna si contrabbandi cocaina dal Cairo.  Ma all’epoca del racconto,1930, evidentemente no, la fama poteva essere quella - Freud viveva di cocaina, e molti suoi corrispondenti.

D’Arrigo “Narratore analitico che scrive in una lingua popolare che non è parlata da nessun popolo”: il dimenticato autore di “Horcynus Orca”, il capolavoro che Arnoldo Mondadori volle, e di cui finanziò a lungo la stesura, caso unico nell’editoria italiana, è così detto da W. Pedullà, suo primo e durevole sostenitore – in “Alberto Savinio, scrittore ipocrita…”, 84.

Euripide – Un tragico suo malgrado? Si sentono commenti delusi al teatro Greco di Siracusa per la sua “Elena: gli appassionati non ci hanno trovato il pathos che se ne aspettavano. “Elena” in effetti non è una tragedia e nemmeno un dramma, è una commedia. All’italiana – triste, e con una morale – e non aristofanesca, ma è un seguito di situazioni comiche, ironiche, satiriche. Se non che: tragedia e commedia non sono due facce della stessa moneta? L’epica se ne distingue, ma Euripide non vuole assolutamente essere epico, è piuttosto un social scientist.
La tragedia è (Savinio) “rappresentazione di uomini moralmente superiori”. È evidente che Euripide non è – non vuole esserlo - un tragico; è un drammaturgo moderno, “borghese”, incredulo.

Leghismo – Sembra aver messo a tacere la letteratura, quella che si potrebbe in qualche modo definire leghista, a partire da Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura”. Domina ormai da quarant’anni, ma non ci sono opere “leghiste” - particolari, locali, campanilistiche. E i dialetti, che prima si privilegiavano, specie in poesia, ma anche nella narrativa, sono scomparsi – le dialettizzazioni di “L’infinito” di Leopardi, che il “Corriere della sera” si compiace di pubblicare, si segnalano per la freddezza. Resistono i dialetti negli sceneggiati, “Gomorra”, “Montalbano” ma come sottolineature di colore.
Un Dionisotti di oggi farebbe fatica a distillare umori regionali, specie al Nord, nelle lettere: modi di dire, tematiche, architetture verbali.  

Padri – Un problema del primo Novecento, lo rileva Walter Pedullà, “Alberto Savinio, scrittore ipocrita e privo di scopo”. Di Savinio come di Svevo, Gadda e Tozzi.

Postumano – Sarà durato solo cinque anni? Sembra scaduto con l’Intelligenza Artificiale, di cui non è d’uso nominarla postumana, anche se rientra in pieno nel concetto. Quasi che il taglio inferto alla storia cinque anni fa da Rosi Braidotti si voglia esorcizzarlo, comunque anestetizzarlo.
Il postumano di Braidotti era derivato dalle nozioni di cyborg – l’umanoide trapiantato – sul territorio infido delle biotecnologie. La nostra seconda vita negli universi digitali”, poteva spiegare la teorica di genere - del femminismo post-femminista - a Leida, Olanda, “il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana”. Ma arrivati al dunque, al cervello artificiale in qualche misura autonomo, l’asticella dell’umano viene ora  innalzata: con l’Intelligenza Artificiale, pure self-confident e sofisticata, sembra molto più difficile superarla.

Sciascia - È un rondista? “Sciascia ha manifestato sempre un’acuta nostalgia dei rondisti”, nota Walter Pedullà, di passaggio in “Alberto Savinio, scrittore ipocrita …”, 84, un critico che non si è (quasi) mai occupato di Sciascia, su cui ha però poche righe fulminanti: “Sulla loro prosa aveva imparato a scrivere in un italiano terso e puntuale come quello di un classico”. Gli piacevano Savarese, Cecchi e altri “venuti dopo le avanguardie storiche”, e in antagonismo a esse. “Sciascia non potrebbe essere più sintetico, un avaro che regala parole che valgono oro anche quando non luccicano”. Uomo di verità: “Sciascia prima trova la verità e poi la racconta, con lo stile di chi ha il dovere di essere chiaro e semplice: la verità è più vicina all’essenziale che al molteplice”.


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