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domenica 28 novembre 2021

Il romanzo del Novecento, nichilista

Un noir torbido, cattivissimo, senza limiti al peggio. Un mondo di deiezione, nella Brighton brillante anni 1930. Tra i rifiuti umani, ancorché ragazzi imberbi, che parlano coi coltelli, coi rasoi, per sfregiare quando non uccidono. Un noir truce, una rappresentazione del Male in tutte le sue forme, dall’alcolismo alle corse truccate, tra bande mafiose, a tutte le età. Con tracce poi “scorrette” di cattivi “ebrei” ed “ebree”, ma di forte impatto: uno “scorretto” Greene vi rappresenta nel 1938, benché già in clima di guerra epocale, una storia di bande criminali, piccole e truci, in una frigida Brighton di week-end lunghi e lollypops.
Uno sforzo immenso, e forse unico, di calarsi nella malavita qual è, non romanzata. Nella violenza senza limiti, contro nemici e sodali – la violenza non ha limiti, non di onore  né di lealtà, di amicizia, di gruppo, di correità – una vicenda da “corleonesi”. A contrasto col “modello borghese”, del tempo libero e della vacanza – “rocce di Brighton”, spiega in nota la traduzione, sono “bastoncini di zucchero candito, duro come roccia, che recano impresso il nome della cittadina”. Con un fondo filosofico forse del tempo, se Sartre e Camus lo svilupperanno in narrazioni analoghe, qualche anno più tardi.
Il male più radicale è nella storia che fa da filo conduttore, benché esile: l’amore di una ragazza sedicenne per un ragazzo diciassettenne, un capobanda senza codici morali, benché cresciuto in parrocchia, glabro di pelo e di sentimenti, anche nell’assassinio, ripetuto, di compagni e sodali, “la dura bocca di puritano” incapace di baci. Applicato “alla più bella di tutte le sensazioni, quella di infliggere il dolore”. Per “un confuso desiderio di annientamento, l’immensa superiorità della non-esistenza”.
Il racconto forse più “impegnato” del Greene neo catecumeno, convertito alla chiesa, quasi un trattato di teologia morale. Ma il “significato” teologico del racconto non guasta la lettura. Un esercizio di nichilismo, cifra del coevo “esistenzialismo”, che i successivi tentativi di Camus e di Sartre non eguaglieranno in intensità, anche se su propositi forse più raffinati. Sulle parole della Messa: “Egli era nel mondo e il mondo fu fatto da Lui e il mondo non Lo riconobbe”. Forse per quello che il confessore dice in conclusione: “Un cattolico è più di qualsiasi altro capace di male. Forse per la ragione che crediamo al diavolo siamo a contatto con lui”. Sul finale, la ragazza cammina “rapida nel tenue sole di giugno verso l’orrore peggiore di tutti” – che è ambiguo, ma sottintende la nascita di un figlio - niente di peggio?
Una pietra miliare della narrativa Novecento, che il fumo di antisemitismo non offusca. A lungo non si è (ri)tradotto, e non si è ripubblicato dopo il successo all’uscita – se non nella Bompiani del F.lli Fabbri Editori, negli ani 1970-1980, con la vecchissima impacciata traduzione di Maria Luisa Giartosio De Courten. L’introduzione di Coetzee alla riproposizione, in parallelo col remake del primo film che ne fu tratto, nel 1947 (col giovanissimo Richard Attenborough, poi baronetto), in parallelo con le canzoni di Morrissey, dei Queen, e del gruppo canadese hair metal Brighton Rock, devia l’attenzione: è un dramma della religione integrale, tutta forma, che non aiuta a vivere. La nuova traduzione di Michele Piumini allevia le punte velenose.  
Graham Greene,
La roccia di Brighton, Oscar, pp. 318 € 12

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