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martedì 30 novembre 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (475)

Giuseppe Leuzzi

Non si può fare conversazione in Calabria, anche in Sicilia, in molti ambienti, se non brillante. Sui toni dello scherzo o della satira – “a zannella” in dialetto calabrese. Negli stessi luoghi e nelle stesse conversazioni che non si sottrarranno alla pratica della luttuosità: ai malanni, di parenti, amici, conoscenti e propri, e alle morti. Il segno è più lo scherzo o più il lutto? O entrambi, la “zannella” per esorcizzare (alleviare) la malattia e la morte.  
“Lo scherzo”, dice Jean Paul, “non conosce altro scopo che il suo proprio esistere”. Ma forse no, è un  falso scopo.
 
Uno studio di Olga Cerrato qualche anno fa, “La Berlino degli italiani”, della “colonia” italiana a Berlino tra le due guerre, nota curisamente che tutti, o quasi, erano meridionali: calabresi Corrado Alvaro e Boccioni, siciliani Borgese, Pirandello, Rosso di San Secondo, il pittore futurista Ruggero Vasari, il pubblicista, corrispondente della “Gazzetta del popolo”, e de “L’Italia Letteraria”, Pietro Solari – che spesso li riuniva, al Romanisches Cafè.
 
Sembra strano, essendo il Sud come l’Avvocato Agnelli lo diceva ironicamente (a proposito di De Mita) “umanista”, ma a molto Sud, anzi ovunque, manca la storia – eccetto isolate fioriture. Non quella nozionistica, di quella ce n’è anzi in eccesso, di ogni campanile, anzi di ogni cortile – naturalmente nobile, tutti nobili al Sud (il genere agiografico, tipo santini). Manca la Storia, l’intelligenza del passato. Un millennio buono di storia. Quella greco-bizantina in Sicilia, cancellata dai Normanni, quella greco-bizantina, e albanese-epirota, in Calabria, quella greco-bizantina, normanna e aragonese in Puglia, quella longobarda in Calabria e Puglia, e nella Campania finitima, da Salerno a Benevento. Quella araba un po’ dovunque, anche in Sicilia malgrado le tante pubblicazioni. Quella politica e religiosa – anche se la religione, è vero, si esclude ovunque, non solo al Sud, anche dalla storia Moderna.
 
La mafia come mito
Il mito è autoreferente: rimbalza sulle sue origini, sugli autori, e li assedia, li convince, li esaspera. E si autoalimenta. Così si è creato purtroppo un mito della mafia. Che non c’era trent’anni fa, c’era la mafia ma non il mito: ancora negli anni 1980 Riina e soci facevano solo paura, e generavano disprezzo – assassini, e più dei propri, sodali, perfino familiari. Un mito curiosamente politico alle origini, di Leoluca Orlando e Luciano Violante, che lo avvolsero dell’imbattibilità . Poi editoriale, sulla linea Enzo Biagi-Roberto Saviano, e quindi dilagante, il mito oggi più scontato – una sorta di cavalleresco Ciclo della Mafia, come già di re Artù, dei Carolingi, di Guerrin Meschino. In parallelo con le numerose accademiche “Storie della mafia”, altro genere fiorente. Storie naturalmente dei giornali che parlano di mafia, e di qualche processo - non molti, i processi sono faticosi, un paio. Di cui la punta di diamante è stato venticinque anni fa, all’inizio del ciclo, “La regia occulta”, la summa della storia dell’Italia repubblicana “Da Enrico Mattei a Piazza Fontana” che mette al centro la mafia, a opera di Giorgio Galli, il professore di Storia delle Dottrine Politiche a Milano – che la “strategia della tensione”, con le bombe e poi il terrorismo, sia opera della mafia il professore l’ha saputo dal senatore Pisanò.
La mafia è sempre quella: in varie accezioni a seconda del mercato della criminalità, ma sempre sopruso, invadenza, con minacce, danneggiamenti, e anche omicidi, sterilità sociale e politica, e organizzzazione degli affari illeciti, droga, appalti pubblici, pizzo. Di brutti, sporchi e cattivi. Di cui sono piene le carceri. Ma evidentemente non abbastanza – troppi processi finiscono nel nulla. Ma come idealizzata, o nobilitata: dei “guanti bianchi”, delle “cupole” o grandi organizzazioni planetarie (con discussioni e votazioni…), della finanza sofisticata, della vita lussuosa o spericolata. Che è l’esatto contrario delle realtà mafiose, ma non nell’immaginario.
 
La mafia non è una famiglia
Un padre amorevole che si rivela essere un trafficante di droga. Freddo e impunito. Se non per le inevitabili denunce e vendette fra trafficanti. Nell’ultimo dei tre film di Jonas Carpignano ambientati a Gioia Tauro, “A Chiara”, la mafia entra di striscio nella vita normale dei ragazzi, anche figli di mafiosi, fra chiacchiere, pettegolezzi, gelosie, motorini, canzoni, cotte, dispetti, complicità. Perché il film, “povero”, di pochi mezzi, con attori non professionali, di marginalità, ma non traumatiche (esterni, atmosfere, personaggi, vicenda), attrae? Perché non c’è l’ipostatizzazione della mafia, in un mondo, un’area, un paese, nella stessa ristretta famiglia. In cui la vita normale, avventurosa nella normalità, di una ragazza volitiva scorre immune al malaffare. Come solitamente avviene in altri contesti. Senza l’imponente sociologia della mafia che vi si sovrappone, dell’unità mafiosa nella famiglia (col figlio maschio…), l’omertà, i codici d’onore, i giuramenti. Di pubblicisti cinici, giudici in carriera, terzo settore della “legalità” - non senza qualche sociologo di professione.
La foto che sempre si rivede di Giuseppe Di Matteo a cavallo, alla barriera al concorso ippico, in cap e giacca neri, cravatta bianca, cavallerizza bianca, stivali neri, commuove certo per il destino che si sa del ragazzo, sciolto nell’acido, dopo lunghe torture, da Giovanni Brusca, il capo-boia di Riina che è ora pensionato dello Stato. Ma sempre anche sorprende, che si possa condurre una vita normale, quella di tutti i ragazzi, accanto al crimine, e senza macchia. Spensierata perfino. Perché circoscrive la mafia – la violenza, i traffici. Fa vedere – anche ai Carabinieri se mettessero gli occhiali – che la mafia non è uno Stato anti-Stato, non è pervasiva, non è premiante o vincente. Non è: è una banda criminale, come ce ne sono sempre state. Con suoi linguaggi e caratteristiche, che però è sbagliato ipostatizzare, non ne cambiano la natura – si veda l’omertà che fine ha fatto, che adesso dobbiamo difenderci dai pentiti, troppi, ingestibili, onerosi. E soprattutto non regola niente, certo non le società che affligge – spesso anche la famiglia in senso proprio.
 
Allo sviluppo basta poco
L’Autostrada del Mediterraneo (Salerno-Reggio Calabria ) è l’unica grande infrastruttura moderna della Calabria post-bellica, dei quasi ottant’anni della Repubblica. Con il  porto di Gioia Tauro. Con l’università infine della Calabria. E un aeroporto internazionale nel mezzo della regione. Tutt’e quattro le strutture sono state volute da Giacomo Mancini, di Cosenza, leader socialista post-Nenni, e più volte ministro.
La provincia di Cosenza, collegio elettorale di Mancini, è anche una Calabria particolare, in molte cose sembra Toscana, ordinata, pulita. Con una agricoltura sempre innovativa e in grado di stare sul mercato, anche internazionale. Con la messa in attività di vastissime aree semiabbandonate, deserte o paludose: il massiccio del Pollino, rinverdito e animato, d’estate e d’inverno, e l’Alto Ionio cosentino, o Sibaritide, una vastissima area bonificata, e avviata a produzioni pregiate, di risi e agrumi. Con aree turistiche montane e marine regolamentate, nell’edilizia e l’urbanistica, e commercialmente organizzate. La criminalità vi è fra le più basse in Italia. Allo sviluppo basta poco.
Vittorio Sgarbi è stato deputato per pochi mesi nella circoscrizione jonica della provincia di Reggio Calabria, la Locride. Eletto nel 1994, portato da Franco Corbelli, il milanese che combatte la malagius7tizia, e poi nel 1996 – ma già distaccato dalla Calabria: nel 1996 optò per il Veneto, e ha cancellato le due elezioni dal suo pur dettagliato sito. Pochi mesi dunque da deputato calabrese e forse di malavoglia. Con presenze che s’immaginano al suo modo fulminee e svagate, da gita nel tempo libero. Ma tanto gli è bastato per ridisegnare alcuni paesi, partendo dalla pavimentazione stradale e dal colore delle case, Gerace, Serra San Bruno, Mileto, Ardore. Che hanno trovato una nuova identità e la mantengono. E questi sono i pochi segni congruenti di ammodernamento nella ex Calabria Greca o Ulteriore – invece delle solite immagini di plinti di calcestruzzo in vista e pareti di mattoni forati. A volte basta un volto in televisione, sia pure simpatico.

Milano
Napoli, dice De Simone presentando la sua “Opera buffa del Giovedì Santo”, “fin dalla seconda metà del Cinquecento era contrassegnata da un altissimo tasso di consumo musicale, determinato dalla politica dei viceré spagnoli, che con manifestazioni musicali e teatrali stabilivano un rapporto rappresentativo tra il Potere e le varie classi sociali”: città da allora musicale, con ben quattro conservatori di Musica”. E a Milano, i governatori?
 
“Milano, dopo Mani Pulite”, ricorda Enrico Pazzali a pranzo con Bricco sul “Sole 24 Ore”, “era livida. Roma viveva il buon governo dei sindaci Francesco Rutelli e Walter Veltroni”. Pazzali è milanese, anche se atipico (ha risanato l’Eur romano), e può dire la verità. Mani “pulite”?
 
Gli atleti ginocchioni di Black Lives Matter non hanno fatto in tempo a rialzarsi che Milano si apriva a settembre la Fashion Week – “Black Liver Matter in Italian Fashion”. Come se il made in Italy fosse già nero, afro-americano. E può non essere cinismo, nemmeno opportunismo. Indubbiamente è senso degli affari – perché non sfruttare l’onda?
 
Cremona “si conferma”, scrive “L’Espresso”, cioè è da anni, la seconda area più inquinata in Europa, “con la più alta concentrazione di PM2,5”, le polveri ultrasottili,  con potenziale incidenza su morti premature e malattie perfino superiore al PM10” (le polveri sottili). Ma “la Regione Lombardia assolve il locale polo industriale e l’indagine epidemiologica non è mai partita”. Ma, per dire la evrità, la cosa si sa perché “L’Espresso” ne scrive, nessuno l’ha mai denunciata.
Se non c’è mafia, se non c’è Sud, non c’è inquinamento.
 
Carlo Levi, “Le parole sono pietre”, sui suoi viaggi in Sicilia, ha la storia di Pippinu ‘u Lombardu, una “sorta di Pisciotta del suo tempo” – il processo a don Pippinu è del 1860 (Levi non dice se prima o dopo Garibaldi). Un maestro milanese sceso ad esercitare iin Sicilia, terra di analfabeti, per guadagnare qualcosa di più. Salvo scoprire presto che facendo il capo brigante guadagnava meglio. Diventando popolare, costrinse la polizia ad arrestarlo. Don Peppino se la prese, e al processo rivelò i legami con la polizia e le autorità.
 
Ha, aveva nel 2019, prima dei lockdown, un reddito medio pro capite di 49 mila euro - al secondo posto, Bolzano veniva con un reddito medio di 40 mila euro, il 24 per cento in meno. Ed è la prima città in Europa per attrazione di imprese e capitali – davanti a Monaco di Baviera. Ma Stoccolma, Londra, Parigi denunciano un reddito molto superiore. Anche Madrid, anche Amsterdam vengono prima di Milano. Molto reddito è nascosto?  
San Siro pieno, nei limiti delle norme anti-covid, per fischiare l’inno della Spagna e Donnarumma. Si paga, si va allo stadio, almeno quattro ore fra traffico, parcheggio e seduta, per fischiare. Si sottovaluta la violenza di Milano.
 
Il Re del Panettone è un romano, di Fiano,  Fabio Albanesi. Premiato da una giuria composta dai dieci ultimi vincitori del premio, tutti non milanesi, non lombardi, uno di Torre Annunziata, uno di Lecce, eccetera. Di un  prodotto milanese beneficiano in molti: è il principio della ricchezza, la diffusione della tecnica.
 
Il portiere Handanovic prende l’avversario per le gambe, per le spalle, solo al collo non gli mette le mani, per l’arbitro Pairetto fa bene, il Sassuolo non ha “chiara occasione da gol”, e l’Inter può così vincere. Non è un errore. L’arbitro è secondato dal Var, Nasca.  E assolto dai commenti milanesi (“Corriere della sera”, “Gazzetta dello Sport”): un errore e basta. Tacciono perfino i social. Tre punti che potrebbero fare la differenza quest’anno alla fine in classifica. Milano non discute quando deve discutersi.

leuzzi@antiit.eu

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