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sabato 30 settembre 2017

Genova per noi era di Mark Twain

Un anticipo della pax Americana a venire, generosa e insensibile? Per che altro si riediterebbe questo Twain?
Integrale in inglese. Alcune pagine, un quinto del totale, nell’edizioncina italiana. La Bur aveva tradotto un terzo del libro. La riedizione Robin raccoglie le impressioni su Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli (Ascesa al Vesuvio”), impreziosendole con uno scritto di Mario Praz.
“Viaggio in Italia dei nuovi pellegrini” era il sottotitolo della Bur. Nuovi perché il viaggio cui lo scrittore partecipò era la prima crociera, in senso assoluto (ma c’è da dubitare), partita da New York l’8 giugno 1867. Organizzata da un ex capitano di mare che si voleva armatore, su un piroscafo nuovo, “Quaker City”, dotato di un centinaio di cabine per americani abbastanza affluenti da poterne pagare il prezzo, 1.250 dollari, cifra considerevole, la crociera si svolse, a tempo indeterminate (durerà un anno), nel Mediterraneo, occidentale e orientale, con una coda nel Mar Nero per visitare Odessa e, a Yalta, lo zar – e una diversion finale alle Bermuda. Pellegrini per antifrasi sui Pellegrini padri fondatori degli States. “The New Pilgrims’ Progress” è il sottotitolo originale di Twain, ma suona alla lettura oggi come antifrastico, rispetto agli originali, quelli sì curiosi e sensibili.
Questo Twain non si riesce a tradurre perché noioso. È la raccolta delle lettere scritte per il quotidiano “Daily Alta California” di San Francisco, e per la “Tribune” e lo “Herald” di New York, corrispondenze giornalistiche. Sulla crociera, più che altro, i luoghi sono a corredo.
Lo scrittore aveva allora 32 anni  e non aveva scritto i libri per cui sarà famoso. Ma era giornalista illustre, e anche un noto umorista. Il libro in cui nel 1869 raccolse le corrispondenze di viaggio sarà anche il suo personale best-seller per tutta la vita. Ma niente, o quasi, ne resta. Non un personaggio, non una situazione. Se non, un po’, la Terra Santa, dove Twain esercita con entusiasmo le sue conoscenze bibliche, per lettori evidentemente corrivi. E gli imperatori che incontra. Napoleone III (“Luigi-Napoleone”) insieme col sultano ottomano, di cui non dice nemmeno il nome (era Abdul Aziz “lo Sfortunato”, intelligente e illuminato, letterato, musicista, ammiratore della scienza e la tecnica occidentali). E lo zar: altro innominato (è Alessandro II), lo zar riceve gli americani in borghese, in privato, cortese con tutti, nel piccolo giardino della sua piccola casa di vacanza a Yalta, con la zarina e una principessina tredicenne, senza guardie del corpo né dame di compagnia, giusto alcuni nobili cortigiani, e tutti sanno o si interessano degli Stati Uniti d’America, e parlano perfettamente l’inglese.
Il resto è noto: è l’americano sempre a disagio. Nessuno parla inglese. Non conoscono il ghiaccio e nemmeno il sapone – molte pagine. Sporcizia e mendicanti, aggressive, dappertutto. Le guide e gli albergatori sono furbi e ladri. I monumenti sono imponenti, se lo sono. Versailles meglio del Colosseo: Versailles “vale il pellegrinaggio. Tutto è gigantesco. Niente è piccolo”. Dei quadri non parliamo – gli Uffizi sono “una interminabile serie di quadri”. Il lago di Como non gli piace, il lago Tahoe “è molto più bello”. Anche l’apprezzamento per gli imperatori, uomini forti, rientra nel cliché.
In Terra Santa invece si appassiona. La visita termina con un panegirico: “La Palestina è desolata e senza fascino. E perché sarebbe diversamente? La maledizione della divinità può abbellire una terra? La Palestina non è più di questo mondo prosaico. È votata alla poesia e alla tradizione; è il paese dei sogni”. C’è anche una prima “colonia”, a Jaffa, sfortunata. Ma è opera di un predicatore mormone  - un passeggero del “Quaker City”, Moses S. Beach, del “Sun” di New York, ne organizza e paga il rimpatrio, 1.500 dollari oro, senza dirlo (qualcun altro se ne prenderà il merito, i cliché si susseginoo come a una catena di montaggio).
Si ride, ma di Twain. Dell’Italia non media grandi impressioni. Perché è, dice di essere, un puritano, e quindi non ama i preti, tutti gesuiti e inquisitori – grande, lungo, elogio fa della legge che stava passando sulla manomorta, la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici con cui il nuovo Stato doveva darsi solidità finanziaria (non se la diede): il governo itaiano era “in bancarotta” già allora. San Pietro, comparato al Campidoglio di Washington, “non ha il ventesimo della sua bellezza”. Solo resta ammirato delle donne di Genova, prima di Paolo Conte, di cui fa in breve il panegirico, sempre tra pesi e misure: “Due terzi almeno delle donne sono belle. Si vestono con elegenza e gusto, e sono anche tanto graziose quanto si può a meno di essere angeli”. Su questa strada forse avrebbe potuto vedere di più. L’Italia tuttavia segnala, malgrado la sporcizia e i mendicanti, per le “bellissime strade”, i “treni perfetti”, le “stazioni principesche”.
Un saggio si potrebbe dire dell’America che verrà. Che è la nostra. Bonacciona ma diffidente. Un avant-goût dell’impero Americano, di come l’America si pone col resto del mondo. Anche con l’Europa. Partendo dal tutto è strano. Tanto. Al punto che uno trova strano che qualcuno – un umorista poi – possa trovare tutto strano. Ma così è, e i luoghi comuni di Mark Twain hanno ormai un secolo e mezzo. Si potrebbe riproporlo integrale per la ricorrenza come documento sociologico. C’è anche Oriana Fallaci in anticipo: “Non ho mai detestato un Cinese tanto quanto questi Turchi e Arabi degenerati”.
Mark Twain, Vagabondo in Italia, Robin, pp. 98, il. € 12

The Innocents Abroad, Woodsworth Classics, pp. 464 € 2,90

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