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giovedì 1 novembre 2012

“La nostra forza era la preghiera”, Keynes

Il maresciallo Foch “è una specie di contadino francese”. Matthias Erzberger, il firmatario dell’armistizio che sarebbe stato di lì a poco assassinato dall’Organizzazione Consul, l’anonima terroristica di destra, è “grasso e disgustoso nel suo cappotto di pelliccia”. Clemenceau parla poco e definitivo, cerbero dei suoi ministri facondi. Lloyd George entra in scena mentre “lentamente si stava scuotendo”, per poi ruggire e soggiogarsi la platea - “faticavamo a capire che cosa stesse dicendo Lloyd George”, ma tutto l’uditorio è con lui, eccetto il ministro francese del Tesoro, Klotz. Che si svillaneggia per essere ebreo. Tra i tedeschi, però, i più intelligenti sono ebrei. Tra essi il banchiere Melchior, socio dei Warburg a Amburgo, col quale Keynes avvierà il rifornimento alimentare della Germania stremata dalla Guerra, contro le tattiche vendicative francesi. È l’unico buon esito, sembra dire Keynes, dei negoziati di pace nell’anno 1919, al termine del quale pubblicherà le parallele “Conseguenze economiche della pace”, di cui anticipa il giudizio: “Se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere. Niente potrà allora ritardare a lungo quella finale guerra civile tra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel nulla”.
È questo il primo e più lungo dei “Two memoirs”, di cui Keynes volle la pubblicazione postuma – subito tradotto nel 1951, l’anno della pubblicazione, in “Politici ed economisti”, qui raggruppato col testo del titolo,  a cura di Giorgio La Malfa, che li contestualizza. S’intitola “Melchior”, ed è una prima redazione, narrativa, del più ampio saggio, le “Conseguenze”, che Keynes avrebbe pubblicato a fine anno.  I tedeschi sono grassi e brutti. A Treviri ai primi del 1919, al primo approccio coi capi tedeschi per il negoziato di pace, Keynes si domanda se non sia stata questa la causa della tragedia: “Quella razza è stata penalizzata dal proprio aspetto fisico” – l’ebreo Melchior è fisicamente “il solo depositario della dignità degli sconfitti”. Sullo sfondo nella seconda o terza sessione, a Spa, della “malinconia teatrale e teutonica dei pini neri”. Mentre gli inglesi, anche i più sciocchi, conservano nell’aspetto fisico una capacità d’intimidazione e quasi di convinzione. La Francia è presente nel fulgore della sua immagine d’elezione, salotto esclusivo e grande cucina, per delinearne “l’avida sterilità”.
C’è anche Lawrence d’Arabia, che illustra vari progetti geopolitici, che nessuno ascolta. Attorniato da principi arabi che recitano “capitoli del Corano”. Keynes era politicamente scorretto, si direbbe oggi, e quindi riesce ancora di buona lettura. Lo era anche nei confronti degli ebrei – dello stesso Melchior, di cui a un certo punto dice: “In un certo senso ero innamorato di lui”. Di fronte al banchiere avverte, lui snob e prossimo Lord, il peso delle “barriere sociali”, che invece il banchiere non imponeva, e sente poi il bisogno d’insolentirlo, rappresentandolo sciatto nel lussuoso albergo, col pitale pieno. Nell’intreccio narrativo, “Melchior” è anche un saggio da scuola di diplomazia sulle tortuosità di una trattativa minore e perfino semplice.
Il saggio del titolo, una memoria di G.E.Moore e dei suoi “Principia ethica”, riesuma e spiega la forza giovanile del gruppo che farà di Cambridge negli anni 1920 uno dei capisaldi del Novecento, con Moore, Russell, lo stesso Keynes naturalmente, e il mai citato Wittgenstein – mentre E.M. Forster si teneva discosto e scostante, e la presenza di D.H.Lawrence viene liquidata con cattiveria, onorato e fobico, che tutto riduce a scarafaggi – gli “occhi di Lawrence” Keynes dice “ignoranti  e gelosi, collerici e ostili”. La forza era della fiducia. Così, generica, senza una speciale scuola o religione. Bensì religiosa, insiste Keynes, intessuta di costante “preghiera”, per quanto laica, nell’ansia del perfettibile: “Mi comporto come se davvero esistesse un’autorità o un criterio al quale mi posso appellare se grido abbastanza forte: forse sono le tracce di un’atavica fede nell’efficacia della preghiera”. Senza rimedio, “gli stati d’animo sono l’unica cosa che conta”.
Attorno a Moore il gruppo coagula un’etica che è un’estetica: “Il nostro ideale era un Dio pietoso”, che rafforza nel gruppo, incurante e impietoso, la libertà d’animo. Che Keynes non sa spiegare a distanza, ma di cui gode ancora l’ebbrezza: “Era un’aria di gran lunga più pura e più dolce di quella che si respirava con Freud e Marx”. Da economista affermato, il saggio è del 1938, aborrendo l’economicismo, la sterilità dell’epoca: “Eravamo i primi – se non gli unici – della nostra generazione a uscire dal solco della tradizione di Bentham. L’azione sociale come fine in sé, e non solo come triste dovere, non faceva più parte del nostro ideale, al pari della vita attiva in genere – il potere, la politica, il successo, la ricchezza, l’ambizione -, mentre tutto ciò che aveva un fondamento economico contava meno nella nostra filosofia che in quella di san Francesco d’Assisi, che almeno organizzava collette per gli uccelli”. Il passo indietro per prendere slancio in avanti, ammicca Keynes sornione. Ma col beneficio indubbio di “salvarci tutti da quell’estrema reductio ad absurdum  del benthamismo nota come marxismo”.
John Maynard Keynes, Le mie prime convinzioni, Adelphi, pp. 144 12

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