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sabato 8 aprile 2017

Ingmar Bergman sembrava Ada Borelli

“Parecchi ex giovani del Novecento si muovono ormai disinvolti fra i capolavori teatrali di Schönberg e Stravinskij e Berg e Bartók e Šostakovič e Britten, quasi familiari e abituali come i balletti di Ravel e Prokof’ev e De Falla, perché da tutta la vita li incontrano e ritrovano fra le mostre e le feste che rendono ancora piacevoli le vacanze non stupide. Sono il nostro paesaggio”. E dopo, “che vera alta scuola spirituale e concreta, la presse parlée a caldo con Lele D’Amico e Giorgio Vigolo ed Eugenio Gara in quegli intervalli e in quelle trattorie dopo le grandi prime”.
È sempre tempo di “vacanza” (“Le piccole vacanze” furono i racconti di esordio sessant’anni fa) per Arbasino, fra concerti, opere, balletti, mostre, feste, e letture. Non “intelligenti” ma non stupide:
Arbasino è social scientist sensibilissimo, della letteratura anche e delle arti. Le scorribande, sottintende in questa raccolta “definitiva”, Arbasino va per i novanta, sono finite. Anche perché qualcuno è morto, Vigolo e Gara trentacinque anni fa, D’Amico trenta. Ma non c’è malinconia. Non c’è nemmeno nostalgia, tutto è ancora nuovo – l’Italia è impermeabile?
Lunghi o brevi, la settantina di pezzi qui raccolti sono soliloqui in realtà. “Ci sono poi quelli che hanno messo a punto un livello di scrittura stilisticamente omogeneo, sia nei testi d’invenzione che in quelli di polemica o di commento dell’attualità: per esempio Arbasino”: parlando di sé nella presentazione della sua propria antologia “Un pietra sopra”, Calvino ha dato la più esatta “sistemazione” dello scrittore lombardo. Omogeneo nel punto di vista personalissimo, delo scrittore semrpe parte in fabula.
La presse parlée è particolare e eccezionale: Arbasino torna periodicamente a raccontarsi la vita passata, tra spettacoli, incontri, letture, da “Parigi o cara”, 1960, in poi. Qui forse più corposi – l’indice dei nomi prende venti pagine, a due colonne. Di un altro mondo, anni 1960-1970 probabilmente (? sarebbe stato utile saperlo), mezzo secolo fa, Arbasino va per i novanta, ma non remoti. Effetto della non digestione. Della vivezza, anche, del ricordo. Con saggi letterari di spessore – Arbasino direbbe “di spessore”: Flaubert, Francis Scott Fitzgerald, De Amicis (quante cose Umberto Eco non ne ha dette), E.M.Forster, Adorno, Parini, Proust, Ludwig II di Baviera, Wagner. Ma più spesso cameos: impressioni, visioni, lampi, anche da lontano.
Molto rispettosi, Arbasino è descrittivo più che analitico. Ma con zampate decise. Ingmar Bergman a teatro: “Quando si franava nella mestizia ai film di Ingmar Bergman più melensi, ci si sentiva osservare: bisogna vederlo in teatro”. Va a teatro, a più teatri, e ne esce sconsolato: “Pochi minuti dopo l’inizio, l’imbarazzo comincia a serpeggiare” – “scena goffamente stilizzata”, “entusiastica gerontofilia”, recitazione da “«La nemica» con Ada Borelli, o la Compagnia Ruggeri, senza Ruggeri”. O il Brecht di “Non si deve andare più in là”: molto ammirato ma “un vate dell’opportunismo”. Camus impossibile, almeno nel suo “Caligola”. Adorno, buon’uomo. La Scuola di Francoforte, che “s’intitola «Istituto di Ricerca Sociologica», però è un santuario della ripugnanza per la Realtà e i Fatti”.  Non solo: “Passa anni di esilio negli Stati Uniti, incontaminata da ogni empirismo o pragmatismo angloamericano”. O ancora: “Questo monumento al pensiero astratto, nato come spregiudicata iniziativa anti-accademica” diventa: 1) “torre d’avorio di mandarini più ‘feudali’ di un Rettore Magnifico”, 2) “matrice involontaria”, da Adorno contestatissima, della contestazione giovanile. O anche, semplicemente, i prezzi assurdi dell’offerta culturale: neanche 30 mila lire a Berlino per una prima all’opera, centomila al Maggio Fiorentino per un concerto, 150 mila allo Châtelet parigino, il doppio a Aix-en-Provence, cinque volte tanto per la prima sempre a Aix.
L’effetto è di un cimitero. Monumentale ma non glorioso. Arbasino si (ri)legge nelle sue scalmanate scarpinate col ghigno. Esterofilo peraltro più che cosmopolita, da Giovine Lombardo. Non c’è l’Italia, a parte Ronconi una volta. C’è un minuzioso Alan Bennett, nemmeno una parola su Paolo Poli. Leggendo queste prose d’antan nell’Europa spenta di oggi, sembrano un anticipo del funerale: molta presunzione e poco sugo.  
Passato indenne dalla fase “solito stronzo”, dopo essere stato la “bella promessa”, Arbasino è approdato da tempo al “venerabile maestro”. Ma qualche graffio lo conserva. Per il privilegio della critica, suicida – la “dolce morte” dell’Autore: la dissipazione.
Alberto Arbasino, Ritratti e immagini, Adelphi, pp. 353 € 23

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