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Dio - Dio
è donna lo sostiene Blixen, oltre agli gnostici: “Capiremmo la natura e le
leggi del Cosmo se riconoscessimo il suo creatore e padrone essere di sesso
femminile”. Ci spiegheremmo il mondo di sangue e lacrime se dicessimo la
Provvidenza una pastora e non un pastore: le lacrime sono per la donna perle
preziose, il sangue la ragazza lo versa per divenire vergine, la vergine per
diventare sposa, la sposa per diventare madre - “La relazione fra il mondo e il
Creatore è per la donna una storia
d’amore. E in una storia d’amore la ricerca e il dubbio sono assurdità”.
Femminismo – Le
donne non ci sono più dopo il femminismo, se non a causa di esso. C’è più donna
nella letteratura maschile, le frivolezze incluse di Fine Secolo, sulle sue
pulsioni e la stessa liberazione, inclusi i machos Tolstòj e Flaubert,
che in quella femminista. Dove la donna è una sola, che coltiva la nevrosi.
Ridotta all’uso genitale. Strana fissazione – è la liberazione di Sacher-Masoch,
lo stimato romanziere umanista, illuminista, storico, che ogni donna se la
facesse con chiunque.
Grecia – L’“invenzione della Grecia”, da Nietzsche a Heidegger, filologi
improvvisati - ma passando per Simone Weil, riflessiva e studiosa - è ora il
tema di un ponderoso studio di Mauro Bonazzi, antichista per eccellenza, “studioso
del pensiero politico greco e di Platone”, non si sa se con più danni, se non
delitti – Bonazzi è tutto per il beneficio. Di Platone soprattutto dapprima,
poi dei presocratici. Con l’incolpevole Omero fra tutti, naturalmente. Con il
fine di dare una nuova spinta al mondo, chiuso il costruttivismo (progressismo) illuminista-positivista.
Di fatto per espungere il cristianesimo, piccola scoria ebraica, “orientale”. Benché
la “scoperta” finisse – sia finita ma non per caso - per “giustificare” la
forza più che il senso critico, spogliato dalle sue certezze. Il “più” (saggio,
intelligente, acuto, potete), la concorrenza, la vittoria, cioè la competizione
o guerra. Il mercato. Che scoperta.
Ragione - Il
cherubino di Alain de Lisle ha tre paia d’ali, che tuttavia non eliminano la
pesantezza. La Natura, egli concluse, “forma un vero paralogismo”. Alain,
Alanus de Insulis, per il quale paralogismo è pure il coito di Pasifae col
toro, e sofisma: “Pasifae, da un’iperbolica Venere agitata di furori,
risolvendosi a un vergognoso paralogismo, commise col toro stupendo sofisma”.
Cosa credere, che si possa credere? Lo sviluppo della ragione è zero. Da
duemilacinquecento anni che esiste, dacché si raccolgono e confrontano i suoi
elaborati, la storia del pensiero è piatta. Anche il progresso è zero, in
quanto ragione. L’uomo è cresciuto in altezza e la vita media è triplicata, ma
c’erano una volta giganti, che vivevano mille anni – anche se, è indubbio,
l’età del ferro s’è perfezionata. Non c’è dunque nulla a cui credere.
L’uomo
dio di Hölderlin “quando pensa è un mendicante”. Perciò la scienza si ribella,
Whitehead lo dice di Galileo, scegliendo di nutrirsi d’ipotesi, armonie,
simmetrie, e d’ingenua fede, un moto antirazionalistico.
La ragione affascina perché è una sfida,
come il tempo, imprendibile. Si può credere in Dio, che è complicato ma
avvicinabile, è come voler bene a una persona, la fede è immaginazione. Di cui
poi dire che ci ha dato questo rompicapo, la ragione - Dio è anche un
passatempo.
La storia, la piccola micragnosa storia,
si lega per un fine filamento diabolico, la periodica insorgenza dell’argomentazione
impropria, inconclusiva, che esclude la ragione e la realtà. Da un secolo e
mezzo per esempio in forma di dialettica, che non porta in nessun posto ma si
vuole sistema del mondo e del reale. L’ambiguità è un passepartout – un
ruolo, una psicologia, una chiave letteraria – del riduzionismo intellettuale.
Tipico della cultura urbana, che ininterrottamente fa la cultura dal
Settecento, dall’unificazione cioè della cultura, fra colta e popolare, in un
genere medio, borghese, regolato, con canoni classificabili e per questo semplificati.
Per tutte le esperienze cancellate della narrazione – della rappresentazione –
si supplisce con l’ambiguità: specchio, doppio, mimetismo, ermafroditismo. E
per l’antico vezzo di celarsi.
Storia – È segnata dall’eternità, da percorsi (e tempi) a noi esterni e ignoti.
Suicidio – Ora che è
diventato semilegale, in Toscana per motivi terapeutici, si viene
normalizzando. È sempre autodistruzione, atto temibile, ma non più rimosso. Se
ne fanno statistiche, p.es. che in Italia è più maschile (11,8 per 100 mila nel 2024,
contro un 3,0 per le donne). Da tragedia greca a curiosità, al più. Sarà l’epoca
del suicidio – “assistito” certo?
Jason Zweig, che sul “Wall Street Journal” tiene una
rubrica di investimenti “intelligenti”, autore di un libro intelligente di grande
successo , “Your Money and Your Brain”, sulle neuroscienze dell’investimento –
applicate all’investimento – nonché rieditore del classico in materia, di Benjamin Graham, “The Intelligent Investor”,
ha preso una pagina del suo giornale per protestare contro il suo amico più
caro, Daniel Kahnemann, “uno degli studiosi più influenti al mondo”, Psicologo in
cattedra a Princeton, vincitore del Nobel per l’Economia nel 2002, per
la “Teoria del prospetto”, nel processo decisionale,
autore del best-seller mondiale “Pensieri veloci e lenti”. Perché a 90 anni,
ma perfettamente mobile e autonomo, festeggiò a Parigi gli anni con la famiglia,
e poi se ne andò in Svizzera, dove si era preparato il “suicidio assistito”.
Il suicidio non può essere una decisione
“intelligente”, né veloce né lenta - la psicologia è un po’ vaga, anche qui?
Viaggio – “Se ci si
fida dell’etimologia”, si spiega e spiega Armando Torno recensendo sul “Sole 24
Ore Domenica” Steven Runciman, “Alfabeto del viaggiatore”, “è il caso di
ricordare che il termine deriva dal provenzale ‘viatge’, il ‘veiage’ del
francese antico; quest’ultimo corrisponde al latino ‘viaticum’, la cui traduzione
è «provvista per il viaggio». In sostanza siamo dinanzi a qualcosa che nasce
dal viatico, da ciò che occorre per intraprendere, appunto, il viaggio”. E
aggiunge: “Il viaggiare si misura da quanto portiamo con noi. Per questo non tutti
gli spostamenti possono essere intesi come un viaggiare”. Anche perché il
viaggio, per quanto organizzato, è incerto – Torno conclude con Montaigne, che
nei “Saggi” spiega: “A chi mi domanda ragione dei miei viaggi solitamente
rispondo che so bene quello che fuggo, ma non quello che cerco”.
Il
viaggio, insomma, come una fuga – con un po’ di viatico? O come un’avventura,
in cerca dell’ignoto? Un po’ dell’una e un po’ dell’altra, certo.
zeulig@antiit.eu
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