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domenica 3 novembre 2019

Mafia è non fare giustizia

Il politologo conservatore siciliano si occupa della mafia di passata, come una pausa negli studi – il “tutto mafia” escludendo ovviamente dall’orizzonte. Ma sa di che tratta. Ci sono le “cosche di mafia”, o semplicemente cosche, gruppi di malavitosi. E c’è lo spirito di mafia, o sentimento di mafia, “una maniera di sentire che, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali”. La mafia è “l’oppressione del debole da parte del forte e la tirannia che le piccole minoranze organizzate esercitano a danno degli individui della maggioranza disorganizzata”. Lo spirito di mafia “è un sentimento essenzialmente antisociale il quale impedisce che un vero ordine, che una vera giustizia, si possano stabilire ed abbiano efficacia tra le popolazioni che ne sono largamente e profondamente affette”.
Prima di questa riedizione, i giudici Caselli e Ingroia una ventina d’anni fa avevano riproposto la riflessione di Mosca come un relitto del passato. Curioso: riproponevano Mosca diminuendolo per accrescere il loro operato? Ma nel fondo probabilmente sapevano – sicuramente Ingroia, che malgrado tutto è ben siciliano - che aveva ragione. 
È impressionante anche come l’armamentario delle mafie sia rimasto inalterato dopo un secolo e tanti cataclismi, comprese l’internazionalizzazione dei traffici e la finanziarizzazione: l’incendio o il taglio delle piante, l’abbattimento o il furto del bestiame, la grassazione, il ricatto, con sequestro di persona, la violenza armata alle cose e sulle persone, a scopo intimidatorio o dimostrativo, l’agguato. Uguale è la sordità morale dell’accumulazione mafiosa: di violenza illimitata, ma calcolata sui codici penali – la passione mafiosa è il calcolo.
Lo “spirito di mafia” Mosca trova anche nell’Italia del Centro – che disprezza lo sbirro – nonché fra i “barabba” e i “gargagnan” di Torino. Perfino fra i nobili e gli snob: “Anche nelle classi alte di buona parte d’Europa e di tutta l’Italia un leggerissimo spirito di mafia ancora sussiste”. Ancora: è un fatto storico, da cui le società progressivamente si emendano. L’ambiente conta molto: c’è chi è mafioso in paese e non lo è più in città, fuori del suo ambiente, chi è  mafioso a Palermo e non lo è più a Messina – “ciò che, se mancassero altri argomenti, basterebbe a provare che la mafia non è effetto dell’eredità o della razza, ma dell’ambiente in cui si vive”.
Mosca discute pure lo Stato-mafia e la corruzione etnica. Con lo scioglimento d’autorità dei consigli comunali, come misura di prevenzione mafiosa. Una misura d’emergenza ma non una buona strategia: “Dicono alcuni che è necessario togliere il parlamentarismo, levare ogni autorità agli elementi rappresentativi, perché in Sicilia sia sradicata la mafia; e scrivono e dicono altri che è il governo che in Sicilia coltiva e mantiene la mafia, perché senza di essa non potrebbe avere quella maggioranza di pretoriani reclutati fra i deputati del Mezzogiorno con la quale schiaccia la rappresentanza delle regioni più civili e colte del Nord. Credo esagerazione l’una, esagerazione l’altra. La Sicilia non è così corrotta che la mafia sia l’unica forza elettorale viva”. Basterebbe condannare i delinquenti.
Questo di Mosca non è un saggio. È una conferenza che tenne ne 1990 a Torino e a Milano. A commento del delitto Notarbartolo: l’assassinio nel 1893 del marchese di San Giovanni, Emanuele Notarbartolo, esponente politico della Destra, sindaco di Palermo, direttore generale del Banco di Sicilia, da parte di un gruppo mafioso. Del processo Notarbartolo, senza una condanna, né dei mandanti né degli esecutori. Non per un qualche strapotere mafioso, una cosca “non riesce a sviare il braccio della giustizia”, ma perché il delitto è stato politico, di gruppi di potere che si sono serviti dei mafiosi come killer.
Gaetano Mosca, Che cos’è la mafia, Aragno, pp. 58 € 12

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