Cerca nel blog

domenica 6 settembre 2020

Il Faust di Lenau

Si entra e si esce dalla storia attraverso l’hotel Rinascimento. Le era accaduto una notte, inciampando nell’insegna, una notte di calura che vagava in cerca di refrigerio, e poteva sentire i suoi passi sui sampietrini, in questa molle città che non farebbe brutte sorprese, e neppure belle, alla più indifesa sgallettata, figurarsi a una donna insonne, sola ma dai nervi tesi. Entrare e uscire dal passato, aveva immaginato, attraverso la finestrina sopra l’insegna sulla parete laterale cieca, con un balzo aereo dentro lo spazio-tempo verso l’incanto, perché il Rinascimento era un’epoca d’incantesimi. Ma l’interno corrispondeva all’esterno, e fu felice di averci sistemato Alessandra, fu felice per lei che ne sarebbe stata felice, con quel suo broncio goloso da bambina.
Al Pellegrino, sotto il cartone da pacchi ritagliato senza grazia, con la scritta L. 1.000 a caratteri grandi incerti, il libriccino bianco Carabba di Lanciano le sembrò subito dopo un incontro inevitabile. Eccolo, “Faust” di Nikolaus Lenau, traduzione di Vincenzo Errante. Settant'anni di polvere, il fregio quadrato della collana stampato sghembo, la copertina stiracchiata da un maldestro rilegatore, ma  era un pensiero divertente, che avrebbe divertito Alessandra.
Esitò a entrare per l’aspetto deprimente del posto, una delle librariacce della strada, un antro in ombra con i libri buttati alla rinfusa. Un ragazzotto ghignava al telefono accanto all’entrata, barba di tre giorni, capelli lucidi e l’inevitabile orecchino. Controllava che non gli sgraffignassero la povera merce. E quando si azzardò a stendere la mano sotto il cartone ci trovò le “Maccheronee”. Guardò per terra, ma il “Faust” di Lenau non era caduto. Cercò nella pila, ci doveva ben essere un’altra copia. Ma non c’era. Chiese al ragazzotto, che sembrava non sentire e non alzò lo sguardo, ma col capo indicò dietro uno scaffale. Dove non c’erano i Carabba di Lanciano ma un signore dalla capigliatura polverosa che accatastava libri. Si dispose ad ascoltarla girandosi a metà, aveva l’occhio grigio chiaro come i capelli, quel ceruleo che sa di glaucoma.
- Se non è lì… - si limitò a dire, indicando l’ingresso, e riprese la sua occupazione.
Bene, se ne sarebbe andata. Ma volle frugare ancora fra i piccoli Carabba, le sembrava impossibile aver visto un libro che non c’era. Sentì un brontolio del libraio, insistente, e poi la piccola copertina riapparve. Gliela porgeva una mano curata. Barba di tre giorni (se la spuntano?), capelli crespi e occhio lucido ridente, il tipo dell’intellettuale era emerso dal fondo dell’antro. Camicione a scacchi, fay sontuoso, con chiusure a coulisse, collo doppio, patelle antivento, cerniere protette, gli uomini d’oggi si corazzano mollemente, sopra dei pantaloni inutili, bianchi e di popeline, tanto sono stretti - si proteggono il seno, direbbe la vecchia casta lingua. Era alto, esibiva un ghigno che voleva essere un invito. E quando lei disse che era per un’amica, una piccola stravaganza nata dall’occasione, tirò indietro mano e libretto.
- Allora lascerà a me il piacere di fare felice un’amica - disse. Se n’era andata senza nemmeno salutare, frastornata.
Alessandra era arrivata, aveva apprezzato il Rinascimento, anche senza il libretto di Lenau, ed era piena di verve e di grazia. Era en beauté. Come sempre. Aveva sempre il fascino del momento: le tettone quando andavano grandi, i fianchi snelli per la minigonna, sembrava un’inglese di generazioni, lo sguardo da nonna ardente per i falpali rétro, e poi i riccioli a cascata, l’allure finta bambina, alla Bongiovanni-Bonaccorti, e ora i labbroni alla Julia Roberts. Che sempre suggerivano un procacissimo, o che era, bacio mozzafiato, se solo la chiamava, “Margherita!”, e ancora più, immaginarsi, per gli uomini. Ma era tabù il sesso, nelle loro scorribande sfrenate. Insieme erano andate a scuola dalle Orsoline a Vicenza, e a Lettere a Padova, avevano viaggiato, fatto vacanze d’estate e d’inverno, e si ritrovavano volentieri a ogni occasione ora che lavoravano lontane.
Ripassava davanti all'antro dei libri, con il solito cartello sgraziato L.1.000 sulla pila sempre alta dei bianchi Carabba. E una volta che chiese del “Faust” di Lenau giusto per allegria, il libraio glauco sembrò riconoscerla. Sorrise, infatti, e disse:
- Lei non l'ha voluto.
- Non ritornerà?
- Il libro non credo. Noi li compriamo a peso.
Tornò lui, invece, l’indomani sul tardi quando lei andava a prendere Alessandra all’hotel Rinascimento. Lo incrociò davanti all’antro e non fu certa che l’incontro non fosse voluto. Lui in un certo senso la bloccò, imponendosele davanti, perché era imponente.
- Allora, questa amica che non può fare a meno del “Faust”, ha un’anima da vendere?
- Oh, è una studiosa di Lizst - non si trattenne dal confidare. E così l'uomo la accompagnò per i pochi passi fino all’hotel Rinascimento, e s’impose anche ad Alessandra. Si presentò con nome, cognome e professione, e per un buon momento fu imbarazzante: le due amiche, intime da sempre, con un estraneo, bell’uomo ma indifferente, a cui esse non avevano nulla da dire, e che non aveva nulla da dire a loro, apparentemente, se non le quattro scemate su un libriccino di nessun conto. Ma ebbe il buongusto di togliere il disturbo. E questo salvò Ulderico il cineasta, come presero a chiamarlo concordi senza neppure uno sguardo d’intesa, un nome ridicolo e una professione ubiqua, senza senso – chi inventa le parole? Avevano sviluppato un'arte speciale a scarnificare i tipi antipatici e i goffi, che sono quasi sempre gli uomini.
Ebbero delle giornate allegre, come le volevano. Lavorare poco, chiacchierare senza eccedere, era il loro ritmo. Alessandra mise a punto con la Scandiani di Santa Cecilia il suo programma di sala per i “Mephisto Walzer” di Lizst e il recital di Campanella. La Scandiani è una donna dal naso imperioso e una profonda voce da basso, che fuma in continuazione, e forse aveva una passione per Alessandra. O forse no. Con Alessandra non si può sapere: sembra non avesse sensibilità, per ingenuità o indifferenza. La Scandiani era stata loro assistente a Lettere, e questo era tutto. Le dava volentieri i lavoretti, schede, presentazioni, programmi. Aveva scovato per il risguardo il Lizst ventenne di Dévéria e se lo mirava in trance - non senza ragione, quella doppia sensualità era sfacciatamente invitante.
Lei scribacchiava, traduceva, faceva proposte, riceveva proposte, imprecise, senza scadenze. Niente è definito, e meno che mai urgente a Roma - e forse era meglio così. Del resto nessuno, o quasi, paga. Insieme prendevano qualcosa a mezzogiorno, quando Alessandra era libera, facevano le vetrine, e ogni sera celebravano a cena. Poi si separavano. Lasciando il Rinascimento, si divertì talvolta a immaginare qualcuno che sbucando dal tetto al primo piano della casa adiacente si fosse introdotto per la finestrina ad aspettare Alessandra, nell’angolo buio della casa. Qualcuno che prese a immaginare nell’aspetto del cineasta. Avevano incontrato insieme più di un uomo. Michele Campanella, per esempio.
- Ma nulla di meno luciferino di Campanella - avrebbero detto dello scherzoso pianista napoletano - non c’è molta allegria nel mondo della musica.
E del direttore di Santa Cecilia:
- La forfora lo soffocherà.
- Questo è bene tenerselo buono – del direttore dell’auditorium, che si stropicciava le mani grassocce alla ricerca di una battuta accattivante, volendo compiacerle, don Giovanni doveva essere grasso se era sempre in fregola. Del cineasta Ulderico, invece, non avevano più parlato. Anche se permaneva quale numen locis, il portento che aleggiava, seppure sfocato, su Monserrato, piazza dell’Oro e il Pellegrino. Ogni luogo s’identifica con un fatto, una persona, un avvenimento, talvolta con l’assenza di un qualsiasi evento, e lei ogni volta ci pensava, rifacendo a piedi quel percorso. Ci pensava andando a prendere Alessandra, ci pensava lasciandola.
Ci pensava anche Alessandra? Ne aveva avuto il dubbio, le volte che era stata trattenuta dalla Scandiani, o dalla zia. Lo sguardo di Alessandra appariva ora perduto in un segreto, il riserbo più accentuato del solito, o era la pelle, lievemente arrossata, stropicciata sembrava. Ma scacciò i cattivi pensieri, il dubbio era da ridere e ne aveva riso. Furono insieme dalla vecchia zia, la vedova di un generale, e dalla Scandiani. Alessandra era giovanile, fresca, eternamente ragazza, naturale cioè, senza affettazione. Ogni increspatura, in quel suo aspetto da statuina di porcellana, denotava un vizio, ma sono le imperfezioni di chi è perfetto.
Se lo ritrovò invece lei stessa, reale, più imponente, un giorno che faceva i quattro passi e aveva voluto tornare verso il Rinascimento misterioso. Sorrideva come se la vedesse da distanza, e fu contenuto. Si accompagnarono per un tratto con naturalezza. Parlarono poco, avevano poco da dirsi, ma i silenzi furono rassicuranti. Con la stessa naturalezza presero una cosa, e poi andarono a cena, e lui l’accompagnò, e salì anche in casa. Lei era stanca, aveva dei ritmi blandi e tutte quelle ore in compa-gnia di quell'uomo, in fondo uno sconosciuto, le pesarono tutte insieme. Anche per il terrore all’improvviso sopravvenuto, per non sapere come si fa, alla sua età. Ma lui si trattenne pochi minuti, chiacchierando senza sosta, e la lasciò accennando un buffetto. Lei se ne sentì accarezzata, ma forse non l’aveva realmente nemmeno sfiorata.
Fu da lei la sera dopo. E ancora la sera dopo. E la toccò, e a lei parve naturale. L’accarezzò sulle guance, sulla nuca, la baciò, si baciarono, e lei avrebbe voluto farlo, le sembrò naturale anche se non sapeva come, ma lui fu un vero gentiluomo romantico. Lasciava ogni volta quella punta di rammarico, desiderio o curiosità, che alimentava l'attesa del prossimo incontro. E quando avvenne, l’attesa restò inesausta, di un piacere che non si consuma e ancora meraviglia. Fu dopo che lui era mancato due giorni, e lei ci aveva vissuto insieme in intensa solitudine.
- È una medicina da prendere - aveva sussurrato. Si ritrovò seminuda che vagava per casa, e ne ebbe un senso di pienezza. Declamava versi stupidi: “Un uomo, acceso dalla fiamme\dell'ebbrezza, vedrai, ti piacerà\meglio assai di un “in folio””. Ma lui è un uomo o una donna? Versi del “Faust”, la cifra errantiana era inconfondibile: “L'ardore del tuo sguardo mi rivela\ che il folle stormo de’ tuoi sensi, a lungo\ costretto in prigionia, libero irrompe\ fuor della carne infine. Ovvia! Un uomo\ stringi, ed all’orgia della danza sfrénati!”
Era il Diavolo Buono. E fu una presenza normale, quando c'era e anche quando non c’era, poiché ognuno manteneva le sue abitudini e la sua libertà. Fu immediata la complicità, fatta più spesso d’intese tacite. E presto si abituò al suo corpaccione, una materia ingombrante ma arcana, sfacciata con i suoi turgori e insieme timida, rispettosa. Le piaceva spogliarlo, le piaceva accarezzarlo, e più dove a lui faceva piacere, l’energia che si sprigionava la emozionava. A tratti, le volte che passavano insieme più giorni, diventava di fuoco al solo contatto, al solo pensiero. Lui aveva una maniera di accarezzarla, con delicatezza, spesso sfiorandola senza contatto, come un rabdomante, con insistenza, che la spossava. E quando l’artigliava come una preda, con le manone inquiete, la stringeva, la strizzava, il moto istintivo di revulsione ogni volta cedeva a una sottile commozione. Era una risposta cerebrale ma anche carnale, lo vedeva, si vedeva, e se ne sentiva riempire, di quel gigante che tremava per lei, con lei, in lei.
Si divertivano anche con poco. Del massimario greve, insistito: “Si è mai visto una donna barattare le cosce per lo spirito?” Che era anche una scoperta: si sa che, quando c’è la passione, tutto è appassionante. Oppure, in riferimento alla stazza di lei: “Le donne grandi vi sono più inclini, tanto più che sono hommasses, e quindi partecipano ai calori della donna e a quelli dell’uomo: come a una grande barca, si dice, è necessaria una grande acqua per sostenerla, a maggior ragione, dicono i dottori dell'arte di Venere, una donna grande vi è più portata e naturale”. Greve ma liberatorio: “Non c’è domenica senza sole, né bella donna senza amore”. E di più per essere colto, cocktail burlesco di spirito gallico e saggezza sprecata: “Gli dei, dice Platone, ci hanno forniti di un membro disobbediente e tirannico. E nelle donne hanno posto un animale goloso e avido. Un animale che, se non è alimentato al tempo dovuto, soffia im-ùpaziente di rabbia, ostruisce i condotti, s’irrigidisce. Ma torna ghiotto e giocoso quando abbia sorbito il frutto della sete comune, irrorando a volontà il fondo della matrice”. Ma anche i silenzi erano pieni di cose.
Poi venne il periodo del corteggiamento, i fiori, a mazzetti e a gerbe, il passo ceduto, il baciamano, l’opera. E quello dei vagabondaggi per i vicoli deserti, le prime ore del pomeriggio, o prima dell’alba. O forse tutte queste cose si sovrapponevano: il rapporto non era ripetitivo, forse perché non era costante. C’era stato il periodo delle uscite in società, prime, presentazioni, cocktail, serate, quello dell’intimità gelosa, quello delle grandi mostre, quello delle domeniche grasse, fuoriporta e a letto gravidi di cibo, come tutti.
A raccontarla, fu una storia piena e senza storie. Le era piaciuto lasciarsi fare. Finché lui scomparve. Senza dire né come né dove, un’assenza più lunga delle solite, all’inizio dell’estate.
Alessandra arrivò, preannunciandosi con una telefonata impacciata dopo tanto tempo che non si sentivano, impacciata da entrambe le parti. Si ritrovarono senza trasporto: dietro le effusioni di maniera, il riserbo era calato a strati spessi fra di loro. Alessandra era sempre bella, ma con un che di rotondo, ora, di umano, un’ombra nello sguardo, una piega della bocca. Non si fecero confidenze, meno che mai sul buffo cineasta dell’anno prima, che Alessandra sembrava aver dimenticato. Aveva anche molti più impegni, e quindi si videro poco, qualche volta a cena, appuntamenti difficili perché Alessandra si teneva libera fino all’ultimo momento.
I primi giorni senza di lui, una settimana, forse anche due, passarono atoni, come se il tempo si fosse fermato. Una volta che incrociò il libraio sulla soglia, andando al Rinascimento dove Alessandra aveva voluto tornare, il glaucomatoso tacque di proposito. Sembrò non riconoscerla. Poi evitò il suo sguardo. E lei vide un’altra se stessa. Impotente. Sensazione che non aveva mai sofferto, e che contrastava con il suo carattere, ma reale: l’uomo era scomparso e lei non poteva reagire, non poteva farlo riapparire, e nemmeno cercarlo, o scacciarlo. La sua storia, semplicemente, era finita, anzi sparita: poteva essere stata un’illusione, un miraggio. Un ricordo è una continuazione della storia, ha bisogno di appigli, cose in comune, abitudini, nostalgie, contrasti, mentre a lei restavano chiacchiere e sensazioni - e forse nemmeno quelle, erano l’idea di sensazioni, che potevano essere state un’illusione.
Fu come una fredda mutilazione. Della perdita ebbe percezione fisica, un pezzo di sé l’aveva abbandonata. Non aveva più rivisto quell’uomo, con cui pure aveva provato la felicità in modo probabilmente irripetibile, la felicità dev’essere intensa e lieve, né l’aveva cercato, dove avrebbe potuto? Tutto questo rivide mentre osservava la finestrina sopra l’insegna, e fu sorpresa che un pezzo di passato l’avesse abbandonata senza più alcuna vibrazione, inabissato con le sue tante aeree radici, e che tutto fosse avvenuto in breve tempo.
L’apertura era piccola, una presa d’aria più che di luce, e sguarnita, nulla di più lontano dal balcone di Romeo. Ma attraverso di essa si era vista lei, l’omaccia, passare come un folletto, per artigliare nella penombra la preda. L’immagine si era ripetuta, moltiplicata, l’ossessione era diventata sofferenza, e quando la raggiunse, passando naturalmente per la porta principale, anche Alessandra sembrò condividerla. Da amica naturalmente, che non sa niente, pochi giorni non fanno un’epoca, né una fantasia la realtà - ma la realtà letteraria riserva sorprese.

Nessun commento: