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giovedì 6 maggio 2021

Cinecittà a Hollywood-Corea

Una tranche-de-vie. Di una coppia giovane, immigrati coreani, “sessagisti” dei polli per dieci anni in California, che provano a cambiare vita e fortuna, mettendo a coltura un terreno abbandonato nel profondo Arkansas, tra “i bifolchi”, tutti in qualche modo suonati. Mettendosi a coltivare verdure “coreane”, cioè al gusto coreano. Non c’è l’acqua, bisogna trovarla. Ci vuole un trattore, quindi ci vuole un prestito. Il bambino ha problemi di cuore, quindi ci vogliono cure – ma qui tutto va bene. La nonna, svanita, causa catastrofi senza fine. La parrocchia non aiuta, gli altri parrocchiani sono e stanno peggio. Insomma, due ore di disgrazie. I grossisti che si erano impegnati a ritirare il raccolto si tirano indietro. La coppia decide di dividersi, ma poi forse no  - malgrado tutto, siamo ancora in chiave di American Dream.
Una copia - non in bella: è incredibile come il neo realismo sia rivissuto in Asia, soprattutto in Corea. Da asiatici però americani. Anzi, si professi il nuovo cinema americano, sempre in testa da qualche anno agli Oscar – dopo l’ondata  latina:  “Parasite”, “Nomadland”, questo “Minari”, il prezzemolo coreano. In chiave minimalista, sommessa. E della rassegnazione, senza sovversione: all’epoca dei disincanto, anzi della crisi. Ma strappalacrime, a effetto, e poco immaginativo – il neo realismo è “poetico”.
Lee Isaac Chung,
Minari

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