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venerdì 16 giugno 2023

In campo di concentramento con brio

“Il campo lavora, mangia, beve, ama e odia, legge libri, ascolta la radio. Gente muore, bambini nascono. Uomini e donne si innamorano, fanno piani per il futuro, oppure si dividono. Si danno concerti, si cucinano dolci, si tengono conferenze, si imparano le lingue, si progetta un teatro. Qui, come ovunque nel mondo, ci sono persone che scrivono poesie, dipingono quadri. Poiché il futuro è del tutto vago, e non solo, anche spaventoso, si vive nel presente  meglio che si può, il meglio possibile”. Si fanno commerci, c’è chi apre un caffè, anche se il caffè è di cicoria, chi un ristorante, anche se il cibo latita, chi fa sartoria. Con quattro squadre di calcio, la polacca, la tedesca, la jugoslava, e “quelli di Rodi”, cechi sionisti naufragati a Rodi e cofinati a Ferramonti. E il “club inglese del caffè Kitty”. Si ruba anche, qualcuno è un ladro specializzato.
“Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” è il sottotitolo. Ma non sembra, è un campo sui generis. Il “caffè jugoslavo” è pieno di tutto, anche vero caffè, e sigarette inglesi. Dapprima con le candele, poi con la luce elettrica. Si ascolta radio Londra, arriva il “Basler Nachrichten”. “Un’isola fuori dal mondo… tutto insensato”. Si può andare in gita, con la corriera, fino a Cosenza. Si può chiedere il trasferimento: bene accetto all’autorità è quello al confino singolo, in un paese isolato, che però non è popolare nel campo (la punizione più temuta è il “campo di concentramento femminile”).
Burocrazia al minimo, nessuna animosità. Ci sono due sinagoghe. Il direttore, Paolo Salvatore, organizza feste da ballo, con pasticcini e orchestrina. Come se non ci fossero state le leggi razziali. Comitati Ebraici sono sempre attivi, a Roma, Genova, Milano, che per le feste mandano pacchi dono, che vengono recapitati. Il campo raccoglie ebrei originari di Germania, Polonia, Austria, Russia, Cecoslovacchia, Ungheria, anche della Turchia non invasa dai tedeschi, rifugiati in Italia malgrado le leggi razziali del 1938, colti impreparati dall’entrata in guerra. Nina scrive: il diario, racconti, scenette. E li “pubblica” anche, in tutta libertà. Si organizzano premi letterari, Nina vince un secondo premio, sessanta lire. Alla partenza per Ferramonti, dopo dieci giorni di San Vittore, alla stazione Centrale di Milano “amici e conoscenti”, che già erano andati a trovarla in carcere, sono venuti a congedarsi con pacchi e pacchetti. Il campo calabrese è uno dei 42 aperti in Italia, ma tutto sembrerà meno che un campo di concentramento.

Un racconto dal vivo, in presa diretta, l’autrice ventenne vi fu internata, di Ferramonti, in Calabria, vicino Cosenza, nel comune di Tarsia, uno dei campi di internamento per stranieri allogeni, cioè cittadini di paesi con cui l’Italia era in guerra o considerava ostili, creati nel 1940. Molti però vi furono internati solo per essere ebrei – molti erano infatti allogeni di paesi dell’Unione Sovietica, che all’epoca era alleata dell’Asse. Ci sono anche comunisti jugoslavi, comunisti greci. E cinesi, “incredibilmente eleganti e abili”. Tre anni “di giorni vuoti. E pieni”.
La morte arriva con la liberazione, con i bombardamenti, e i mitragliamenti insistiti, degli Alleati. Il campo si svuota dopo l’11 settembre (il primo bombarda mento) e poi si riemie, senza coercizione Con l’aiuto anche dei soldati italiani sbandati. Con la liberazione, “gli affari delle cortigiane del campo andarono magnificamente, era un momento molto favorevole” – c’era un bordello nel campo, tennuto da un’ebrea ungherese, la signora Parkowski.
Ferramonti fu un luogo di deportazione (confino) costruito appositamente, con decine di baracche ordinate in fila. Ma fu un luogo speciale anche per le condizioni di vita. Diretto da un prefetto, Paolo Salvatore, un ex ardito di D’Annunzio a Fiume, esperto di prigioni-confino a Ventotene e a Ponza. Guardato da carabinieri e militi, pochi e non intromissivi. Al comando del maresciallo Gaetano Marrari, che interveniva solo per evitare danni ai confinati. C’era il filo spinato attorno al campo, ma si poteva oltrepassare senza problemi. La vita scorreva normale a Ferramonti malgrado l’isolamento, e le ristrettezze.
La posta arrivava, e veniva spedita. Il cibo veniva distribuito regolarmente. I confinati ricevevano il soldo, come i militari: la “decade”, sessantacinque lire – che nel tempo fu anche aumentata, a ottanta lire. Se sposati, e molti si sposavano per questo, potevano avera una casa per sposati, una stanza privata invece della camerata a venti o trenta. Un campo di baracche, faticoso come può essere una comunità ristretta, un villaggio, per gente urbanizzata, ma incredibilmente vispo per quegli anni di guerra, pulito quanto possibile – quando Nina, che prima dell’internamento viveva a Milano, lavorando come modella per pittori famosi, Albertosi e Carminati, mentre leggeva e scriveva, si avventura  per curiosità fino a Tarsia, ne ritorna tramortita, dall’indigenza.
Un racconto vivace, e diverso. Incomprensibilmente isolato e quasi trascurato. Non c’è racconto di vita di internati ebrei durane la guerra, testimonianza, ricordo, che non sia accettato e letto. Di questo, che pure è di grande lettura, è stata trascurata la traduzione e poi la diffusione. Nina Weksler, autrice di molte narrazioni, l’ha ottenuta in tarda età, quando col marito hanno deciso di passare gli ultimi anni in agro di Cosenza, da un editore locale – quasi una memoria a Cosenza. L’edizione è peraltro curata e ben presentata. Molte fotografie documentano il racconto.
Nina Weksler,
Con la gente di Ferramonti, Editoriale Progetto, pp. 248, ill. € 15 

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