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giovedì 25 marzo 2010

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (55)

Giuseppe Leuzzi

Ritorna insistente nelle narrazioni in Sicilia e Calabria l’anacoluto. In due regioni in cui il dialetto è peraltro un calco dell’italiano – se non ne è all’origine (la Calabria non ha autonomia linguistica rispetto alla Sicilia, che l’ha latinizzata, due volte: nel 200 a.C. e coi Normanni – i Normanni hanno veramente conquistato la Calabria dopo la Sicilia, dalla Sicilia, per un secolo sono stati in Calabria a guardare la Sicilia). È l’asintatticismo una persistenza greca?
Lo è l’ellissi, altra figura sintattica muta, della comunicazione corrente e della scrittura. Ricorrente questa in Calabria, ne è una sorta di koiné, dove c’è meno enfasi e più riserbo (anarchismo, insociabilità), non avendo avuto né corti né feudo.
L’ellissi “naturale”, non artefatta alla D’Azeglio o alla Gadda, negli exempla dei manuali di retorica. Né sfuggente o omertosa – è ben affermativa. È come la configura la retorica antica: concisione, detractio del noto.

Danno anche netta la sensazione, asindeto e ellisse, in una con le anfibologie su cui si incentra lo humour, e con la frequente affermazione attraverso l'interrogativa negativa, di una espressione involuta perché a lungo inespressa o repressa. Come di un fondo di solitudine che teme o non sa rischiararsi. Non per un limite, o dei vincoli espressivi, del dialetto rispetto alla parlata italiana, ma per una sorta di complesso, di una insicurezza di fondo, fortemente radicata. Si vede anche nelle mininterviste che fanno la cronaca in tv, la difficoltà ad adattarsi alle frasi stereotipe, il vezzo di storiografare ogni evento piuttosto che di dirlo, di non "dire" (esprimere un parere).

Mafia
Il pizzo è la mafia, ne è il trademark. Ma è il principio della concussione, così diffusa.

Volendo sottilizzare, sotto la violenza, è una scienza esatta, ancorché informale, del potere. Sa come si articola, quali sono i suoi snodi, come si addomestica. Essenzialmente con la corruzione e la violenza. E questi sono i suoi punti deboli: i mafiosi sono Proci che tessessero da sé la loro tela di Penelope.
È – sempre che si ometta la violenza – un modello di potere veridico e di superiore razionalità. Rispetto a quello, per esempio, dell’antimafia, sia essa candida oppure opportunista. Ma primitivo e intuitivo, perciò quindi debole e ancillare in una società complessa.

L’ha creata l’Italia. L’ha creata la Repubblica in Calabria negli anni Sessanta e in Puglia negli anni Settanta (dopo Moro: c’è un perché?). Mafia in quanto organizzazione di sfruttamento economico, con i metodi criminali.
L’Italia ha creato i presupposti per cui la mafia è mafia. Organizzata cioè, violenta, impunita, brada in spazi aperti. Involontariamente, per la crescita dell’economia, e per l’ideologia delle opportunità e dello Stato debole. Ma colpevolmente, per la violenza e l’albagia con cui gestisce il Sud.
Il Sud naturalmente ne è colpevole, ma più di tutto per accettare supinamente l’ideologia italiana: l’indifferenza, il patronaggio, la concussione.

È la democrazia andata a male. La democrazia radicale, senza regole. La mafia è eversiva come la democrazia non governata. È il lato debole della democrazia, in cui inevitabilmente vince il peggiore, anche soccombendo. Anche soccombendo, agguanta e avvelena le forze migliori, necrotizza le energie costruttive.

Con la mafia non si tratta perché è anarchica. Per questo è sbagliato il controllo del territorio attraverso gli informatori (confidenti) in cambio di protezione. C’è sempre un altro boss, uno più potente, più assassino, più selvaggio. La lotta alla mafia è solo frontale, radicale.

È il nemico di dentro e di fuori. Lavora come un’infezione: la violenza non perseguita diventa peste. È un cavallo di Troia: mentre il Sud è assediato dal nord, ecco insorge la mafia. I mafiosi si fanno forti perché diventano collaborazionisti. Cattivi e determinati, ma anche brutti e sporchi. Vincono solo perché protetti, impuniti. Prosperano e impazzano grazie al nemico esterno, che senza far nulla per combatterli (per esempio arrestarli e condannarli), ne esalta con strilli e urla la potenza e la terribilità. Fiaccando la resistenza, che è spontanea, e ovvia.

È la minaccia quotidiana – la barbarie. Delitti avvengono ovunque, e quelli classificati possono essere più numerosi e anche efferati altrove che in aree mafiose. Ma sono delitti, infrazioni cioè riconoscibili, immediatamente definibili. La mafia è una rete, minacciosa anche quando non attua. Condiziona il modo di essere prima che gli eventi.
Una vera antimafia deve però attivarsi sugli eventi: impedendo, prevenendo, punendo il reato. Altrimenti aggiunge condizionamento a condizionamento. Tipica la condanna di chi si piega al pizzo piuttosto che del mafioso e dello spregevole collector che lo impongono: si toglie il respiro della libertà, riducendola al compimento di un obbligo procedurale, la denuncia (che come si sa è quasi sempre senza effetto). I vari movimenti che s’illustrano in piazza, così come le poesie di Violante distribuite nelle scuole, servono alla carriera politica ma non fanno crescere la coscienza civile e antimafiosa. Non possono: non c’è sentimento antimafia più forte di chi è angariato dalla mafia. Che i mafiosi vorrebbe stroncati e non materia di studio.

Uno dei mezzi del nemico esterno è la teoria dell’omertà. È come il concorso esterno in associazione mafiosa: non si sfugge.

Milano
“Stranezza del sangue spagnolo in alcuni grandi artisti europei”, nota Curzio Malaparte in uno dei suoi primi “Battibecchi”. E contunua perfido: “Ad esempio (per parte di madre) in Alessandro Manzoni. Le pagine della Monaca di Monza, quelle della peste, rivelano il sangue spagnolo; a tacere di alcuni tra i più singolari personaggi manzoniani”.

Milano è la capitale morale d’Italia in quanto profondamente immorale.

Da tempo ha cancellato la geografia, capitale metropolitana di un paese continentale.

Protesta tanto, ma è Berlusconi: sensibile alle foglie, ai bimbi rom, e alle donne segregate, insensibile sui conflitti d’affari. Si pretesta lieve ma è sempre padrona di sé e degli altri.

Si presenta illuminista. Per qualche anno, forse – a fine Settecento, fino al 1814? Era stata nel Seicento città di untori e colonne infami, nonché di bravi, seimila o sessantamila, una cifra enorme. Nel Cinquecento cuore della Controriforma.

Giuseppe Bono è un bravo ingegnere e ha salvato la Fincantieri dalla chiusura, anzi l’ha rilanciata, con un successo che dura ormai da una dozzina d’anni. Ma è calabrese. Il ministro Bossi ha accettato di figurare accanto a lui in una manifestazione della Fincantieri in un albergo a Milano il 9 ottobre, scrive Dario Di Vico (“Piccoli. La pancia del Pese”, p. 122). Ma ritiene di dover esordire puntualizzando: “Giuseppe Bono è un calabrese, un terrone, ma è bravo. Ogni tanto un’eccezione c’è”.

Di Vico partecipa a un’assemblea della Life (Liberi imprenditori federalisti europei), un’associazione leghista, a Santa Lucia di Piave. Si lamentano tutti, “e persino i proprietari di bed & breakfast” (p. 72). Questi in particolare “si lamentano dei clienti che scappano prima dell’alba per non pagare il conto”. Tutti del Sud?

leuzzi@antiit.eu

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