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venerdì 28 settembre 2012

A Sud del Sud - l’Italia vista da sotto (145)

Giuseppe Leuzzi

Lo Sgargiato - l’emigrato è straniero
Ludwigsburg è un’appartata città, non fa centomila abitanti, al centro della Germania sopra Stoccarda. Oggi ospita l’inquietante Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen, l’archivio della denazificazione – cioè dei nazisti. Ma si raccoglie senza clamori attorno al palazzo rococò dell’architetto lombardo Retti e all’annesso parco, coi daini e gli scoiattoli. Una tranquilla corte württemberghiana, il musicista Jommelli ci visse contento quindici anni.
In centro la pizzeria è gestita da un ragazzo italiano. Che col fratello in cucina si passano le ordinazioni in dialetto. La sorpresa è forte, è il dialetto dell’infanzia. La curiosità irrefrenabile, con la proposta di un nome a caso per non fargli violenza: Scido? Lui conferma. Ma non si sorprende. Veniamo da due posti distanti quattro chilometri. Ma lui non sa di noi, né di nient’altro. Né gli interessa. Non c’è mai stato, solo questo aggiunge per chiudere l’argomento. È nato a Torino, è suo padre che è emigrato da Scido. Loro da Torino, lui, il fratello e la madre, hanno deciso di tentare miglior fortuna.
Uscendo, è d’obbligo dopo il riconoscimento, seppure forzato, salutare la vecchia madre, che si intravede  seduta in un angolo. In cucina, accanto alla porta: una sorta di guardiana. Una donna non vecchia in realtà, solo segnata dalle afflizioni. Non dai lutti, non è vestita di nero. E non si contiene, non vede perché. Non inveisce contro la sfortuna, o la vita dura, ma contro il direttore della banca. Un disgraziato e un porco. E anche un delinquente. Che ha fatto firmare le carte si suoi figli e poi s’è preso il locale, facendoli lavorare per lui. Non per la banca, per lui personalmente. “È uno succhiasangue”, uno strozzino: “Non solo la pizzeria, s’è preso tutto, la casa, i mobili, la macchina. E ci ha messo in mezzo un delinquente”.
Il conto si paga a un connazionale, sembra siciliano da come parla tedesco, che gira con una scarsella sulla pancia. Agitandola per far tintinnare le monete. Ha la bocca semiaperta, con labbroni penduli, e un occhio anch’esso pendulo, per un ectropion che ne rovescia la palpebra inferiore. Lo “sgargiato”, dice la madre con eloquio originario.  

Milano
“È impressionabile, suggestionabile, e ha la fantasia audace e creatrice dei apesi mercantili”, così Corrado Alvaro vedeva Milano su “La Stampa” alla vigilia della guerra, il 4 maggio 1939 (ora in “Scritti dispersi”). E di questa adattabilità faceva un merito all’architettura della città: “Si dice comunemente che Milano sia brutta…. Hanno finito col dirlo gli stessi milanesi” – Gadda per esempio, è uno dei suoi motivi di ripudio. Mentre è verso il contrario, scriveva Alvaro: “Il brutto irrimediabile è l’ozioso….Nel caso di Milano, non c’è quasi parte di essa che non ricordi un tempo preciso, un atteggiamento e un costume”.
Per poi concludere: “È curioso come una città che si presta meravigliosamente a una sistemazione urbanistica, che ne ha i mezzi e l’audacia, sia tra le peggio sistemate d’Italia”. Con la distruzione sistematica dei giardini, publlici e privati, eccetera.

È famosa per la profanazione dei cadaveri Di Evita, fra i tanti, al Cimitero Maggiore, del corpo del Duce, e da ultimo di quello di Mike Bongiorno.

Poiché il governo austriaco aveva proibito a metà degli anni 1850 l’emigrazione dei maschi, i milanesi corsero a colonizzare San Paolo in Brasile travestiti da donna.

Berlusconi vedrebbe bene un’Europa senza la Germania. Lo stesso non si potrebbe dire dell’Italia, senza Milano? Ma non si può. “Milano non esiste” lo ha scritto Dante Maffia nel 1996. Quando Milano si stava prendendo tutta l’Italia. Non ci sono vie di fuga.

Le cause civili a Milano prendono dai dieci ai vent’anni. Gli avvocati consigliano di non fare casa per crediti inferiori ai 200 mila euro: meglio accontentarsi di quello che si riesce a recuperare senza, che il debitore o il truffatore è disposto a pagare.

Monti è milanese integrale e insigne. Richiesto sui suicidi di imprenditori risponde remoto: “In America sono il doppio”. Richiesto sull’eccesso di tasse ribadisce secco: “Devo confrontarmi coi mercati”. Richiesto dalla Fiat di confrontarsi col mercato dell’auto, s’indispettisce. ne convoca irato i manager a palazzo Chigi.

Nella tenzone fra i lombardi Sallusti e Farina col magistrato Cocilovo (un “cugino di Torino”?), giudicata dalla milanesissima Corte d’Appello della dottoressa Malacarne contro Sallusti col massimo di violenza possibile, non è questione di giustizia, naturalmente. Neppure di giustizia politica, qui tutti sembrano di destra – di centro, ma insomma ci intendiamo. È un questione di one-upmanship. Di chi, alla lombarda, ce l’ha più duro. L’one-upmanship  non ha codici – ma è Pulcinella…

Aspromonte
Mons erat infectus” è l’incipit di Ovidio , “Atteone e Diana”. Se ne può fare l’epigrafe dell’Aspromonte.
L’Aspromonte è una montagna particolare. Alberata in ogni suo anfratto. A cono sul mare. Ai fianchi  ha valli sempre in qualche modo aperte, sull’orizzonte senza limiti. Con larghi altopiani a metà altezza dove tutto cresce ricco di umori, frutta, ortaggi, legumi, per la giusta miscela di calore e umidità. Ai piedi guarda la più vasta selva di ulivi del mondo, alti, centenari. L’aria in ogni sua valle è secca, rinvigorente – la pioggia sulla Montagna viene dal mare. Quando l’afa ristagna sul mare nella lunga estate, l’Aspromonte la notte lo rinfresca col terrazzano.
La Calabria, se qualcuno in Italia e nel mondo ne ha cognizione, è l’Aspromonte. Ma l’Aspromonte non è questo, è quello di Alvaro, “Gente in Aspromonte”: acque limpide di ruscello e gente abbrutita, dall’ignoranza e l’avidità – si dice bisogno, ma non c’è il bisogno in Alvaro. Una forte, indelebile, “invenzione della tradizione”.
Il caso di scuola di “invenzione della tradizione” è la Scozia di Walter Scott. Un paese di sassi e pastori trasformato in un mondo di spiriti e folletti, di nobili guerrieri, di prati smeraldini. Lo scrittore, anche lui fuggito nella capitale, come del resto ogni scrittore deve fare, non sommerge la patria della rozzezza che la connota, ma al contrario la purifica e la eleva. Crea i clan, ognuno con i suoi colori, ne inventa le imprese, le registra in opere e albi d’oro, le sposa alla poesia di Ossian, la più romantica e inventata, la purifica e onora del suo proprio prestigio. Chi va via invece dall’Aspromonte, da sempre popolato di divinità, storia, templi, città, imprese, oltre che di acque e di boschi, lo fa con astio, con  odio. A ogni occasione rinnovato: i sensi di colpa inevitabilmente producono nuovi più radicali rifiuti.
Un mondo ridotto alla cornice etnografica. Della diversità irrecuperabile – irrecuperabile al progresso. Che è la storia. Un mondo condannato quindi. Benché dotato di un storia complessa, ricca, documentata. Perché rifiutato.

Si è diversi per marchio di fabbrica o d’origine, non per colpa, perché senza lingua. Nell’indifferenza del buon italiano. Anche se si è a proprio agio con Molière, che troppi purtroppo non apprezzano abbastanza, o con Steinbeck – non, purtroppo, con Shakespeare, non s’impara. Un sardo, per esempio, può essere suddito con dignità, senza essere un diverso: ha la sua lingua.
Si può essere condannati per non essere troppo diversi, non abbastanza. Per avere scelto, per mansuetudine, per convenienza, per logica, la lingua di tutti, latini o greci che fossero. Senza identità quindi, quando questi venga negata dall’incumbent di turno, piemontese o lombardo che sia. 

leuzzi@antiit.eu

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