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mercoledì 15 marzo 2017

Come costruirsi un amore, con la gelosia

La storia dell’amore, felice e infelice, per Jacques Henric, marito dell’autrice, evidentemente fedele da un quarto di secolo, dopo esserne stato per un ventennio dal 197, colaboratore alla rivista “art press” di cui Catherine Millet è fondatrice e direttrice, levatrice e regina dell’arte conettuale. “Jour de souffrance” in originale, gelosia nelle traduzioni, che l’autrice ha voluto, è una  estenuazione della forma più ordinaria di pathos o sofferenza amorosa, e la più dolorosa anche, in astratto. Non nel caso, che l’autrice inframezza di scene ordinarie di sesso estremo, di qelle cui abbonda nel racconto che l’ha resa famosa, “La vita sessuale di Caterine M.” - qui arricchite dal voyeurismo: la gelosia, più che tormentarla, la trafsorma in guardona goduriosa. Lì si inscenava il sesso di gruppo, qui la masturbazione.
Questa gelosia è una sofferenza introversa, di cui non viene fatta colpa al compagno che l’ha originata, e per questo tanto più esulcerante. Ma non distruttiva, come ci si aspetterebbe: il suo  delirio Catherine ferma a buon punto. Dopo averlo inframezzato di rapporti rfeali e immaginari di ogni tipo, a distanza, a letto e in pedi, con lo stesso Jacques. Fin qui è un racconto noto, la gelosia non è nuova alle lettere. E in questo caso è anche pretestuosa, a nuove figurazioni di sesso. L’autrice onesta lo dice subito di sé: “Mi piaceva passare ad un uomo all’altro”. Spregiudicata. Della generazione del Sessantotto, che non cita, alla promisuita sessuale c’è abituata .
Ma non è tutto. Di suo c’è una scrittura piena di pietre d’inicampo e insieme semplice. Il tema è un caso clinico di cui il paziente facesse l’anamnesi. Ma quanto appassionante nella sua varietà: di impressioni, toni, sugestioni. Questo selfie parte dalla capacità di “sistematici ed elaborati sogni diversi”. Inacessibili agli urti: “Il sognatore fa tesoro solo di beni immateriali”. A suo agio “nelle ammucchiate del Settimo Arrondissement di Parigi” come al “pranzo di matrimonio in un paesino sperduto in Umbria”. Una sorta di corporea immaterialità. Sorretta dalla capacità di “vedere” l’invisibile, acuita dal lungo esercizio di esperta d’arte. Doti affidabili che però le si rivoltano contro. In una asorta di nemesi, di invidia degli dei, un effetto boomerang.
Tutte queste capacità congiurano a una narrazione di cui lei stessa è vittima. Senza possibilità di happy end, e anzi aggravamdo il quadro a mano he le esercita. Esperta d’arte, ha l’occhio clinico, lo dice all’inizio. Vede, come le ha insegnato Dalì, dove noi non vediamo, le cose le parlano.  Così le foto che suo marito tiene sparse sul suo tavolo, negligente. Se ne costruisce una gabbia da cui non riesce a uscire. È, metaforicamente per il suo alter ego, della Millet esperta d’arte, una rappresaglia sull’occhio di lince, sulla capacità  di intravedere. Di una potenza oscura o ignota. E sulla capacità d’inventarsi mondi nei sogni a occhi aperti. Se non che tutto poi confluisce in una storia d’amore costruita – un mondo inventato a occhi aperti.
Catherine Millet, Gelosia, Mondadori, remainders, pp. 219 € 9,25

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