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lunedì 13 marzo 2017

Trump è l’America, terra desolata

Non è “l’America”, voleva dire Friedman, quella degli emigranti, di fatto e intellettuali, di mezzo mondo. Ma è l’America di oggi, e probabilmente di ieri. Che non si nascondeva ma non contava, sotto la cappa della correttezza politica, delle “magnifiche sorti e progressive”, malgrado il crac del 2007, e mezzo secolo di guerre: “Per oltre cinque decenni l’America ha conosciuto livelli semrpe crescenti di violenza, in casa come fuori. La nazione è passata di shock in shock, e alla fine abbiamo avuto la sensazione di non poter più subire oltre”.
Non è un libro trumpiano, anzi. Si apre col solito catalogo di vituperazioni. Friedman non fa eccezione per “tutto quello che vorremmo sapere su Trump”: ci rinvia alla serie sterminata di rivelazioni e sdegni della correttezza politica.  Stucchevole, anche se cita una minima percentuale delle migliaia di articoli che ogni giorno si vomitano su Trump. Succede col neo presidente Usa come fu con Berlusconi, oggetto per anni di centinaia di libri e migliaia di articoli che ne facevano di tutto, anche importatore di droga, mafioso, stupratore, ma non quello che vinceva le elezioni – un problema della sinistra: la gente paga e si emoziona per sentirsi dire (suffragare) quello che le piacerebbe? Ma il giornalista ha fiuto. Quando dice Trump “uno del Queens”, riccone ma di periferia, snobbato dalla puzza al naso dell’Upper East Side di Manhattan. Né manca di rilevare, seppure in una riga, la squallida campagna elettorale di Hillary Clinton, specie contro Sanders.
Il suo pregio è di avere viaggiato per il paese durante la campagna elettorale. Che lo mette in grado di produrre un’istantanea degli Usa oggi, non soltanto la solita compilazione delle battute del neo presidente. Oltre ai capitoli, professionalmente molto curati, sull’America che ci possiamo aspettare con Trump: i banchieri di Goldman Sachs al comando, presentati uno per uno; il Big Oil, l’industria petrolifera al primo posto nei piani di Trump; una radicale deregolamentazione ambientale; il business delle armi per difesa personale; le incertezze della politica estera, sia militare che commerciale, anche nei rapporti con Putin. Su questo aspetto un capitolo forse ingeneroso è aggiunto, ma sicuramente da leggere, sull’“inesistenza” dell’Italia a Washington. Né manca, purtroppo, la liberazione della Sicilia nel 1943 a opera della mafia.
L’American Dream Friedman ha sempre considerato, dice, retorica. C’era forse, spiega, negli anni del boom, 1950-1960, poi non più, se non eri bianco o comunque ceto medio. Ma ora non trova più capacità di resistenza, né solidarietà. L’America profonda ha scoperto imbruttita, impaurita, astiosa, e la racconta in varie storie, di rifiuto, emarginazione, desolazione. Inframezzate da incontri con l’America che conta, incluso il futuro presidente eletto. E da dati finalmente significativi sulla reale condizione di vita delle masse in America. Sottopagate. Con una misera e comunque costosa assistenza sanitaria – l’assistente sociale volontaria non crede che in Europa i poveri siano curati gratis, allo stesso modo dei ricchi. Ottima – l’unica disponibile – è la presentazione che Friedman riesce a interpolare della sanità Usa, dai costi e dalla procedure che sarebbero incredibili se non fossero vere, compreso l’Obamacare, l’assicurazione media allargata che Obama ha voluto.  
Un’America da Terzo mondo
E all’improvviso un’altra America emerge, dietro la superpotenza mondiale, curiosamente affine al Terzo mondo, dove il lusso costeggia la miseria, Addis Abeba, Bangkok, Rio de Janeiro. Un’allucinazione, uno degli effetti perversi del fenomeno Trump? No, Friedman, tornando a casa, scopre solo macerie. Il Delta del Mississippi, 400 chlometri quadrati, poco meno, di squallore. Gli Appalachi del West Virginia, la desolazione. Un regime di lavoro arbitrario, paghe, orario, precarietà, primo Ottocento.
È indigente un americano su tre – e se occupato ha bisogno in troppi casi di tre lavori per campare: “43 milioni di americani, pari al 13,5 per cento della popolazione, vivono sotto la soglia di povertà, e un totale di oltre 100 milioni, corrispondenti al 32 per cento della popolazione, ricade nella categoria dei lavoratori indigenti”. Sopravvive con l’assistenza pubblica un bambino su cinque, il 20 per cento: 14,5 milioni di bambini vivono sotto la soglia dela povertà, 2 milioni in condizioni di estrema povertà.
Un sistema che si manga la coda. “I salari bassi costano ai contribuenti più di 150 milioni l’anno”, di spesa sociale, per buoni pasto, medicine etc.: esattamente “152,8 miliardi di dolari l’anno per finanziare le famiglie dei lavoratori che hanno beneficiato dei quattro programi di sostegno alla base del welfare: il Medicaid, l’assistenza temporanea alle famiglie in difficoltà, i food stamp e i crediti d’imposta”. Uno su due occupati nei fast food sopravvive con la carità pubblica, food stamps e Medicaid. “Il maggior datore di lavoro degli Stati Uniti, Walmart”, 400 mila dipendenti, “paga i suoi lavoratori, se includiamo anche quelli part-time, una media di 8,80 dollari l’ora…. Nel 1955, quando il maggior datore di lavoro era la General Motors, pagava i suoi lavoratori, in media, l’equivalente di quelli che sarebbero oggi 37 dollari l’ora” – il calcolo è di Robert Reich, professore all’università di California, che fu ministro del Lavoro di Clinton e ha fama di sinistra incondizionale, presidente di Common Cause, ma il suo best-seller s’intitola “Come salvare il capitalismo”. E negli Usa c’è il triste istituto del fallimento individuale, quando non si riesce a pagare più l’affitto, gli acquisti a credito, medici e medicine. 
Di Trump Friedman è stato profeta, sul “Corriere della sera del 18 febbraio 2016, quando il futuro presidente era solo un arricchito e un balordo outsider, evidentemente se ne intende. E ora consiglia di non prendere Trump sottogamba: l’America lo ha cambiato e lui cambierà l’America. Una rapporto biunivoco che a suo giudizio avrà brutte conseguenze, per gli americani e per gli altri. “Donald Trump (purtroppo) va preso sul serio. Mai visto tanto squallore nella politica Usa”. Non in Trump, nella sua retorica. Nella politica di base, sul territorio, nella situazione socio-politica. La crisi ha denudato il liberismo, l’indigenza è diffusa, il risentimento deborda.
Si spiega insomma la sorpresa Trump. Su cui però il giudizio alla fine Friedman riporta pessimista: Trump non risolverà nulla, non migliorerà nemmeno, e anzi peggiorerà. Se Trump farà “anche solo la metà delle cose che minaccia”, tra quattro anni gli Usa avranno cambiato volto, ma in peggio. Un vaticinio – per fortuna? – da tarare con la superficialità, diciamo con l’irruenza, Friedman non si sottrae alla psicosi Trump. Del tipo: Putin è un giocatore di scacchi, sopraffino, Trump “è un imprenditore rozzo e superficiale di New York arrivato alla Casa Bianca dopo essere stato la star di un reality Tv”. Dopo aver documentato una serie di errori e superficialità della campagna elettorale democratica, e delle amministrazioni dell’ultimo quarto di secolo, per due terzi democratiche. O fa colpa massima a Trump di avere detto: “Se i rifugiati continuano a riversarsi in diverse parti dell’Europa credo che sarà molto difficile tenere insieme l’Unione”. Che è l’evidenza.
“Surreale” è un aggettivo che Friedman usa spesso. Ma più surreale di tutto è il voto americano deciso o influenzato da Mosca. È il fatto perverso dell’informazione liberal su questa elezione, di darsi la zappa sui piedi, chiudendo orgogliosamente gli occhi.

Alan Friedman, Questa non è l’America, Newton Compton, pp. 348, ill. € 12,90

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