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mercoledì 23 febbraio 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (484)

Giuseppe Leuzzi

Il bilancio del governo per il 2022 ha dovuto stanziare 2,67 miliardi per finanziamenti di emergenza ai Comuni di Torino, Napoli, Reggio Calabria e Palermo, per evitarne il fallimento. A fronte di un impegno dei Comuni ad accrescere l’addizionale Irpef oltre il tetto dell’8 per mille previsto dalla legge. Quindi ci saranno nuove tasse comunali. Senza che si veda in alcun modo un qualche effetto dell’eccesso di spesa, a Reggio Calabria sicuramente, dissestata e sporca. e anche a Napoli.

Di Sebastiano Vassalli, lo stesso che da ultimo si professava leghista (“Ammiro Umberto Bossi, un Davide padano” - “Corriere della sera” 13 agosto 1996), la vedova di Leonardo Sciascia, Maria, intervistata dallo stesso giornale un anno prima, ricordava. “Penso alla rabbia di mio marito davanti a un’edizione scolastica de ‘Il giorno della civetta’. Censurata a sua insaputa proprio da Sebastiano Vassalli”. Un’edizione dello stesso editore – fortunato, ogni novità dello scrittore riempiva le librerie - di Sciascia, Einaudi: “Leonardo protestò e in casa editrice gli chiesero scusa”. La casa editrice, non Vassalli. 

Montanelli editore di Alvaro e Pirandello
Poche settimane prima di morire, Montanelli dedicava il 29 maggio 2001 la sua “stanza” sul “Corriere della sera” all’amicizia con Alvaro. Alla sua stima di Alvaro, della sua “scultorea prosa”, più che all’amicizia. Un “pezzo” tralasciato nelle varie raccolte di Montanelli, che è utile rileggere:

“Caro Orlando (un lettore di Melito Porto Salvo, che lo sollecitava, n.d.r.),
Non mi parli di «dimenticati». In questo Paese senza memoria lo siamo, o siamo avviati a diventarlo, tutti. Di Alvaro, non posso dire di essere stato un grande amico per due motivi. Anzitutto perché c’era, tra lui e me, una notevole differenza di età. Eppoi perché lui non era facile alla confidenza e alla familiarità.
“Nato, come lei sa, in una famiglia poverissima del profondo Sud calabrese, una volta mi raccontò di essere cresciuto a una stretta dieta di pane e olive. Non esagerava di certo: Alvaro era incapace d’inventare. E nemmeno giocava alla vittima: era quasi per tutti così, mi disse, al suo paese. E l’unica cosa che questo passato gli aveva lasciato addosso era la paura che a lui e ai suoi figli il pane e le olive venissero a mancare.
“Ho sempre sentito dire che Alvaro fu, alle sue prime armi di scrittore, aiutato con qualche sussidio dal ministero fascista della Cultura Popolare, il famoso Minculpop, e non mi stupirei, né tanto meno mi scandalizzerei, se fosse vero. Quell’organo istituito soprattutto per controllare e, all’occorrenza, censurare, aiutò moltissimi giovani a sbarcare il lunario commissionandogli qualche lavoro d’occasione. Ma non ho mai saputo che ce ne siano stati di Alvaro, oltre tutto incapace di chiedere favori.
“La nostra amicizia nacque per corrispondenza quando, relegato in Estonia come «lettore» d’italiano all’Università di Tartu, un editore locale mi chiese se potevo consigliargli un romanzo italiano da tradurre in quella impossibile lingua. Gli dissi senza esitare: «Gente in Aspromonte», e presi incarico di comunicarlo all’autore e di fargli la prefazione. Alvaro me ne fu gratissimo. Quando tornai a Roma venne subito a trovarmi, e mi chiese come mai avevo consigliato quel libro suo. «Perché - dissi - non lo reputo da meno de ‘I Malavoglia’ di Verga». Mi guardò incredulo, ma capì che lo avevo detto sul serio. M’invitò a casa sua, una casa che, come mobilio, sembrava spiantata da quella della sua casa calabrese, tanto era agreste e disadorna («Speriamo - pensai - che non tratti anche me a pane e olive», ma ci mancò poco).
“Poco tempo dopo, uscì il suo ‘L’Uomo è forte’, il romanzo che, svolgendosi in un Paese a regime comunista, sembrava implicarne una condanna in gloria di quello fascista. Nulla di più cretino. Era, pura e semplice, la condanna del totalitarismo di qualsiasi colore fosse: certo, non poteva attribuirgli quello nero.
“Poco dopo fu ingaggiato dal Corriere della Sera dove io l’avevo preceduto di qualche mese, e il cui direttore, Borelli, era anche lui calabrese. Fu lì che scrisse gli ‘Itinerari italiani’, un ritratto esemplare del nostro Paese.
“Non scriveva con facilità. La sua sorvegliatissima e scultorea prosa non faceva nessuna concessione a vezzi e artifici letterari. Per un articolo lavorava per giorni e giorni, come se considerasse la fatica un coefficiente d’obbligo, e forse anche con la paura di essere licenziato e di non poter portare a casa nemmeno pane e olive.
“Di carattere somigliava al suo fisico piccolo di statura, tozzo e compatto come certe figure etrusche. Gli erano rimaste addosso le stigmate del contadino meridionale, e non faceva nulla per nasconderle. Rimase molto stupito quando al «Bagutta», dove lo condussi una volta a cena, tutti mostrarono di sapere chi era Alvaro e lo accolsero festosamente. Nemmeno a questo era abituato, anche perché non gli era costato nessuna «fatica»”.

Leggendo la “stanza”, Sandro Gerbi, futuro biografo di Montanelli, fu incuriosito dalla sua esperienza di editore, sul Baltico, di Corrado Alvaro. E alla fine di una serie di infruttuose ricerche, ne ebbe tutti i riferimenti dall’Estonia, dalla Biblioteca Nazionale di Tallinn. Era vero, e anzi la sorpresa fu doppia: Montanelli, esiliato per motivi politici all’università estone, con un improbabile incarico di “lettore di italiano”, per ingannare il tempo fece tradurre, con una sua prefazione, anche Pirandello, “I vecchi e i giovani”, il romanzone della disillusione dell’unità nazionale - il primo germe del futuro “Gattopardo”.
La prefazione ad Alvaro Gerbi riprodusse sul “Sole 24 Ore” il 14 dicembre 2003, in una grande pagina di apertura del settimanale “Domenica”, sotto il titolo “Montanelli, Aspromonte sul Baltico”. Un testo semplice, palesemente frondistico, anzi di opposizione: “Ai giorni nostri gli scrittori italiani sempre più si concentrano e si isolano nel loro mondo fantastico. È una solitudine in cui i deboli periscono e i forti si consolidano. Corrado Alvaro è uno di quei forti”. Come Pirandello, e come Grazia Deledda, che ha citato in precedenza.
Continuando - è già Montanelli, che tutto sa, anche dell’Italia che non conosceva: “Alvaro è soprattutto il poeta del dolore. Egli è nato in Calabria, una delle regioni più inclementi d’Italia, un vasto altopiano, povero e pietroso, gelido d’inverno e torrido d’estate, poco fertile, con un paesaggio in cui domina un’opprimente tonalità giallognola. Quella gente, la più primitiva della penisola….”.

Camiola, senese di Messina
Delle 106 “donne illustri” (“De mulieribus claris”) di cui il protofemminista Boccaccio ha fatto la storia, sei sono reali, non mitiche cioè o classiche ma contemporanee. E una di queste, “Camiola vedova senese
è invece di Messina. Città ora in abbandono, ma già grande porto, nonché centro storico e culturale. Boccaccio la dice nata a Siena e cresciuta a Messina. Ma è di Messina, dove era nata, nel 1310, e dove morirà trentacinque anni dopo, Camiola Turinga, o anche Cameola Turinga, Figlia di un cavaliere (tedesco?), Lorenzo di Turingia, e di una nobildonna messinese (probabilmente della famiglia Bonfiglio). L’appellativo “senese” di Boccaccio potrebbe derivare dal nome del marito, un mercante, forse senese, dal quale Camiola erediterà un grosso patrimonio. La storia la vuole, bella, ricca e onesta, protagonista di un gesto – che però non si saprebbe come qualificare - verso Orlando (Rolando), un figlio illegittimo del re di Sicilia Federico III d’Aragona, mandato dal fratellastro Pietro II, succeduto al trono del comune padre, a combattere contro gli Angioini, fatto da questi prigioniero, a Napoli, e in attesa di riscatto. Pietro essendosi rifiutato di pagarlo, Camilla già vedova si offrì: pagò metà della sua sostanza (duemila onze), a condizione che Orlando-Rolando la sposasse. Il giovane fu liberato, e si recò a Messina, ma qui si rifiutò di sposare la liberatrice.

Camiola gli fece causa, e la vinse. Anche il re Pietro le diede ragione, imponendo al fratellastro il matrimonio. Si organizzò quindi uno sposalizio regale. Ma il giorno del matrimonio, di fronte alla nobiltà del luogo, Camiola rifiutò il principe, facendogli dono del riscatto pagato – per poi convolare a nozze con “più nobile sposo”.
Il racconto è ripreso da Bandello col titolo “Timbreo e Fenicia”, la ventiduesima delle sue “Novelle”. Che Shakespeare avrebbe adattato nella commedia “Molto rumore per nulla” – per questo ambientata a Messina.

 

Calabria
A Odessa, ancora ucraina malgrado gli eventi, il sindaco si fa forte di un consigliere politico calabrese, Attilio Malliani. Che non dice molto a Battistini, sul “Corriere della sera”, ma è sensato: “Otto anni fa, quando i russi si presero la Crimea, non si sentiva quel senso d’angoscia che sentiamo adesso”. Che cosa non si fa fuori dalla Calabria.
Malliani è un pingue ex giovanotto di Reggio Calabria, che a trent’anni ha spiccato il volo sposando una giovane ucraina.
 
Ha le o strette e le e pure, strette. Che Meneghello, nei “Piccoli maestri”, la sua odissea semiseria della lotta partigiana, dice “onanistiche”. Parlando con un russo evaso dai lager tedeschi e aggregato alla banda in tedesco, il poco tedesco che i due compartivano, si sente però superiore grazie alla pronuncia: “I suoni che facevo io erano incomparabilmente più preziosi, le ch, e le erre raspate e grattugiate, e la strettezza quasi onanistica delle e strette e delle o strette”. 

 

Domenico “Mimmo” Tallini, politico di Forza Italia in procinto di diventare presidente del Consiglio regionale, viene arrestato due anni fa dal Procuratore Capo di Catanzaro Gratteri per concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo due anni è riuscito ad andare a udienza preliminare, e il giudice l’ha scagionato. Ma non si tratta di errore del discusso Procuratore. Tallini è sicuro che l’arresto è stato concordato da Gratteri con Salvini e Boccia, la Lega e il Pd, per evitare di votare – “per programmare meglio le loro strategie politiche” - subito dopo la morte della presidente Santelli, come lui chiedeva. Magari è vero: la versione di Tallini sa della migliore giustizia e della migliore politica in Calabria – quando, cioè, non è corruzione. 
Poi, dopo un anno e mezzo, ha vinto il candidato di Tallini, Occhiuto, e si è tenuta l’udienza preliminare per la scarcerazione.

 

“La sposa”, sceneggiato Rai di grandi ascolti sulle giovani calabresi comprate come mogli da contadini-agricoltori del Nord, con un carattere di donna molto forte, impersonato da Serena Rossi, napoletana, è stato girato per la parte “calabrese” in Puglia. La Film Commission della Regione Puglia finanzia i film più generosamente della Calabria? No. Ma in Puglia in tanti anni di Film Commission hanno creato un’infrastruttura di servizi locale, che rende molto più economico girare in esterni. L’industria dei servizi è fuori dall’orizzonte calabrese: impresa è essere padroni, non lavorare.

 

Anche: i soldi, in Calabria, evidentemente, malgrado le statistiche, non mancano – se “la fame aguzza l’ingegno”. Se l’ingegno poltrisce.

 

Antonio Piromalli dà “una vocazione tragica e religiosa” all’“anima calabrese” – “una linea interiore che va da Gioacchino a san Francesco di Paola, a Campanella, ad Alvaro”. Di “una umanità che si distende dal lontano filo pitagorico e orfico, dalla concezione della metempsicosi come condanna dell’essere, come mancanza dell’essere”. Che si manifesta in una “scontentezza” esistenziale, “In un linguaggio biblicamente solenne, apocalittico”. O non piuttosto ironico e perfino scherzoso, o polemico, in Campanella, Padula, Ammirà (e imitatori), lo stesso Alvaro? E i tanti del secondo Novecento, compreso Perri, fino a Walter Pedullà - La Cava, Zappone, Delfino, eccetera.


Leggendo il rapporto che Primo Levi e Leonardo De Benedetti, in qualità di sopravvissuti ad Auschwitz, furono richiesti di scrivere per il comando russo che li aveva liberati, si ha l’impressione, quando si arriva al pinto dei servizi sanitari, di trovarsi nella sanità calabrese dopo dieci anni di commissari. File, attese, insofferenze, brutalità, riportano agli ospedali di Locri e di Polistena, i soli due nella popolosa provincia di Reggio Calabria. È ingiuria paragonare le due situazioni, certo. Ma l’“organizzazione disorganizzata” è la stessa. Malgrado, va aggiunto, i molti milioni disponibili per miglioramenti o nuovi ospedali, e non spesi.

leuzzi@antiit.eu


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