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sabato 26 febbraio 2022

Lucia Joyce, viittima della madre

La vita di Lucia Joyce è un romanzo. Terrificante. Un caso da manicomio di conflitto madre-figlia. Rifiutata alla nascita dalla madre, che continuò ad allattare Giorgio, nato due anni prima. E quando in uno dei tanti litigi Lucia la colpì con una sedia, la fece internare - la richiesta di internamento è firmata da Giorgio. Il padre, per quanto amorevole, non riuscì a proteggerla. Morirà nel 1982, a 75 anni, una quarantina dei quali in manicomio, trascurata del tutto dopo la morte del padre: dagli zii Joyce, dalla madre, dal fratello, dal nipote Stephen, erede dei diritti (seppe della morte del padre dai giornali).
Un romanzo che però non si scrive, pur nel femminismo ritornante delle ultime generazioni – il matricidio non è tema freudiano, psicoanalitico, femminista? E sì che Lucia è personaggio avvincente, anche piccante. Una sola biografia ne è stata tentata, vent’anni fa, in America, da una specialista di letteratura irlandese, Carol Loeb Shloss, “Lucia Joyce: to Dance in the Wake”, non tradotta, non più riedita. Fa sempre testo la vecchia biografia di Joyce di Richard Ellmann, apparentemente minuziosa ma basata sulle narrazioni di Giorgio e di suo figlio Stephen, quelli cui si deve la damnatio di Lucia. Lucia vi ricorre sempre psicopatica. “Mandò a monte la festa del compleanno del 2 febbraio 1932 picchiando la madre, e l’internamento in una clinica si rese obbligatorio”. E all’ultima pagina: “Si comunicò la morte del padre a Lucia che non volle crederci, e quando Nino Franck l’andò a trovare disse: «Che sta facendo sottoterra quell’idiota?» - come Franck, che in nota diventa Frank, avrebbe comunicato a Ellmann in conversazione (della visita si hanno altre, discordanti, relazioni), mentre si sa che la cosa non fu comunicata a Lucia.   
Il “Wake” della biografia di Lucia rimanda a “Finnegans Wake”, che molto deve a Lucia, al suo mistilinguismo, più inventivo di quello del padre, e caratterizzante, come naturale. I punti d’interesse sono insomma tanti, letterari oltre che passionali, critici, filologici. Ma gli studiosi di Joyce la trascurano anche loro volentieri, pur valutando solitamente con perspicuità il rapporto del padre con la madre, la ex cameriera d’albergo – che Joyce non volle mai sposare, malgrado la tante e insistenti pressioni familiari.
Francesca d’Aloja abbozza un ritratto fantasticato, innamorato, di Lucia nella raccolta “Corpi speciali”. Un po’ di fantasia, ma con paletti solidi in difesa della poveretta – nomen omen? è ben un nome manzoniano che il padre italianista le ha dato, Lucia. E ne immerge correttamente la disgrazia nel contesto familiare, impietoso. Il nipote Stephen, figlio di Giorgio, l’erede che si è fatto odiare per mezzo secolo da tutti i joyciani, ha distrutto “tutti i documenti riguardanti Lucia Joyce: le lettere, i diari, i disegni, le poesie, i referti clinici, le fotografie, e addirittura un memoir da lei scritto in manicomio dal titolo ‘La vera vita di James Joyce’, redatto in italiano, la prima lingua imparata e studiata da Lucia” – con la quale corrispondeva con il padre James, a giudicare dalle lettere di quest’ultimo, non distrutte.
Folle di fatto è stato Stephen, il figlio di Giorgio, altro romanzo, seppure non drammatico. Lo stesso, liquidatorio, Ellmann annota che “le stranezze di comportamento” di Lucia emergono nel 1929, quando il fratello Giorgio si fidanza con Helen Kastor Fleischman - di undici anni più vecchia del fidanzato: i due fratelli erano molto legati (se non in rapporti incestuosi, opina Shloss). Prima “ai ricevimenti era allegra e loquace”, scrive il biografo autorizzato, “e talvolta imitava Charlie Chaplin con i pantaloni cadenti e il bastoncino”. Charlot e Napoleone erano i suoi personaggi preferiti, si quali aveva dedicato ai diciassette anni un articolo che una rivista belga, “Le Disque Vert”, pubblicò, con una breve nota di Valéry Larbaud. Disastrata a scuola dai continui trasferimenti paterni, ebbe molti interessi extracurricolari. Studiò piano per tre anni, a Zurigo e Trieste, canto a Parigi e Salisburgo, disegno a Parigi, alla Académie Julian. A Parigi soprattutto aveva studiato danza – “con un impegno che eguagliava quello paterno”, deve dire Ellmann, “aveva studiato sei ore al giorno, dal 1926 circa al 1929”. Secondo varie scuole, di vario indirizzo - i metodi Jacques-Dalcroze (svizzero), Jean-Borlin (svedese), Madika (ungherese) –
, e con vari maestri: Raymond Duncan, fratello di Isadora, un personaggio, pacifista, vegetariano, capelli lunghi sulle spalle, sandali ai piedi, tunica; madame Egorova – Liubov Nikolaievna, ex Balletti Russi; Lois Hutton e Hélène Vanel (ritmo e colore); Margaret Morris (danza moderna). “Come danzatrice”, ammette Ellmann, “Lucia, alta, snella e aggraziata, aveva raggiunto uno stile assai personale”. Varie esibizioni sue sono state registrate. Alla Comédie des Champs-Elysées in tre riprese: il 20 novembre 1926 nel “Ballet Faunesque” di Lois Hutton, il 19 febbraio 1927 in “Vignes sauvages”, il 18 febbraio 1928 in “Le Pont d’or”, un’operetta buffa musicata da Émile Fernandez. Con la stessa compagnia danzò anche a Bruxelles. Al Vieux Colombier aveva partecipato il 9 aprile 1928 al balletto “Prétresse Primitive”. L’ultima esibizione, il 28 maggio 1929, al Bal Bullier, fu un trionfo: arrivò seconda in una competizione coreutica, entusiasmando il padre, che raccontò della platea che voleva assolutamente e solo l’Irlandaise”. Era il ballo in costume d’argento a forma di sirena, che aveva disegnato lei stessa, che entusiasma D’Aloja.
Francesca d’Aloja, Odissea di sofferenza. La triste vita di Lucia Joyce, online


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