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giovedì 3 febbraio 2022

Razza e cultura

Nella piccola tempesta sollevata da Whoopi Goldberg sullo sterminio degli ebrei, se considerarlo un crimine razziale oppure un crimine dettato dalla ferocia, si sono udite, fra tante condanne, anche voci ebraiche che dicono l’ebraismo non un fatto razziale ma religioso.
Curiosamente, la distinzione dell’attrice afroamericana era il sentimento di Primo Levi. Quello che attrae, anche, tuttora della sua narrazione della Shoah. Bene lo spiega lo storico Sergio Luzzatto, dopo avere documentato l’esperienza partigiana dello scrittore nel volume “Partigia”, nel pamphlet “Ritorno su ‘Partigia’”, in cui risponde alla critiche (sulle spie che vendettero la “banda”, e sull’esecuzione sommaria di due ladruncoli scambiati per spie): “Fra gli ingredienti della ricetta che rende «Se questo è un uomo» un libro unico entro il genere della memorialistica sulla Shoah è la rinuncia a rappresentare la condizione della vittima di Auschwitz come vittima semita piuttosto che come vittima umana. È l’invito ai lettori perché considerino – fin dal titolo del libro, e poi nel salmo inaugurale – «se questo è un uomo» piuttosto che «se questo è un ebreo». D’altronde, il lavoro di editing compiuto da Levi in fase di stesura, dalla prima versione dattiloscritta a quella pubblicata nel 1947, era andato precisamente nel senso del levare quanto definisse in termini ebraici la condizione dell’internato, per definirla in termini universalistici (salvo far precedere il tutto dai versi ricalcati sulla Shemà, la preghiera degli ebrei: più che un esergo, un comandamento)”. Di uscire evidentemente, liberarsi, come dirà in qualche intervista, dal
la vergogna di “non essere morto” - dal senso di colpa, per quanto senza colpa, morale o sentimentale, verso i compagni di prigionia morti, politico, per la propria sventatezza, etnico. 

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