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lunedì 8 marzo 2021

Medea in America – nera, schiava

“A differenza di un orso o di un serpente, una volta morto un negro non lo si poteva scuoiare per ricavarne qualcosa e il suo corpo non valeva neppure un soldo bucato”. Era la sola ragione per tenerli vivi: i cacciatori di schiavi fuggiaschi rifuggivano dall’accopparli, che sarebbe stato al loro modo di vedere più semplice. Raccontata, rappresentata, per briciole ma in evidenza raccapricciante, la vita degli schiavi, anche dopo liberati, in America, non molti anni fa – e, in un breve pienissimo inciso a p.158, anche quella dei Cherokee, degli indiani d’America: una storia di sterminio che si trascura ma che è ben parte degli Stati Uniti. Per sapere cosa succede, anche per apprezzare che una democrazia sia uscita da tanto obbrobrio – nessun risentimento nella narratrice, giusto le stranezze dei bianchi, dei razzisti e degli antirazzisti..
Sethe, la schiava fuggitiva, vive a 37 anni libera in Ohio con una figlia di 18, Denver – cui ha dato il nome della ragazza bianca, Amy Denver, a suo modo anch’essa fuggitiva, che l’ha aiutata a partorirla.  “Beloved”, amatissima, è la figlia di due anni che la schiava Margaret Garner, “Sethe”, in fuga, ripresa, ha scannato col coltello perché non ritornasse schiava. Ma presto Beloved ritorna. A ridosso dell’apparizione di vecchi compagni di schiavitù, memori della bellezza della madre, a suo tempo attrazione della Sweet Home, la casa dei vecchi padroni Garner. Beloved riappare, compagna dapprima di giochi della sorellina minore Denver, poi interlocutrice insistente, assorbente, della madre, il cui rimosso riaffiora, tentazione e terrore di Paul D, il vecchio compagno di schiavitù che ha eletto domicilio in casa Sethe. Così chiamata, era senza nome, al seppellimento: allo scalpellino che gliene chiede il nome, offrendosi di inciderlo sulla pietra in cambio di una sveltina, lì sull’erba, in presenza di un suo proprio figliuolo, Sethe risponde “amatissima”. Ritorna, perché “chi muore di morte violenta non rimane sottoterra, come il Cristo”.
Un lento, lungo, flahsback. Attorno all’infanticidio un’epoca prende corpo, buia, fredda, insanguinata a freddo. “Era il milleottocentosettantaquattro e i bianchi erano ancora scatenati. Città intiere ripulite dalla presenza dei neri. Ottantasette linciaggi in un anno, solo nel Kentucky, quattro scuole di colore distrutte dal fuoco, adulti frustati come fossero bambini, bambini frustati come fossero adulti, donne nere violentate dalle ciurme, furti di proprietà, colli spezzati”. Una storia di violenza ordinaria, che si rimuove ma non remota, e non finita. Era nel Kentucky Sweet Home, la proprietà gestita da un coppia di bianchi che riconoscevano i negri, passata poi, alla morte di lui, al fratello maestro: non cattivo, ma come tutti i bianchi, che i neri tiene per inumani: non li capisce, parlano, vivono senza senso. Un racconto da antropologa meticolosa, sulla vita-non-vita degli schiavi, non per paradigmi ma da indagine sul campo, di cose viste. come se fosse possibile vivere una storia passata.
La storia anche di una solitudine altezzosa ma continuamente incattivita. Dai bianchi “senza pelle”, come appaiono agli occhi degli schiavi, senza colore, trasparenti. Larve di cui è inutile chiedersi la logica o approfondire il linguaggio. E dalla propria gente che si pretende sodale, e canta e prega, ma non si stanca di giudicare, e rinnovane la pena, il dolore, l’isolamento stesso nel mentre che si approfitta della generosità della vittima. Un racconto del bene nel male, nella morte procurata alla propria figlia, che è insieme di una contro tutti. Sethe, la madre dell’Amatissima, è Medea, una donna appassionata ma senza personalità, non giuridica, senza diritti. Una Medea in nero alla seconda potenza, doppiamente annientata, come donna e anche come schiava. Una “tragedia greca”, un teatro di passioni e riflessioni, più che di “qui” e “ora” – molto argomentare della narrazione si potrebbe si potrebbe dire euripideo.
Un romanzo molto costruito. Di testa. Si direbbe di stomaco, per i materiali in cui si articola, che  inondano le pagine, con insistenza anche ripetitiva, ma sono deiezioni, rifiuti. La tessitura, che si vuole complessa, su più piani, personali, morali, affettivi, storici, è molto costruita. Dall’ordito purtroppo in vista, e camaleontico. Morrison è l’autrice e il professore – il critico, l’anatomopatologo il dissezionatore. Di eventi e modi di essere ma anche di simbologie complesse, così come il linguaggio, che li trascendono. E occupano, invadono, ingombrano la lettura – così come quando si legge Euripide e non lo si ascolta, lo si guarda.
Morrison è stata una redattrice editoriale di qualità, per scrittori di ricerca, attività che rivendica nella nota introduttiva, ora da professore di scrittura creativa nelle maggiori università, e si sente.
Il virtuosismo si sente e pesa. Il racconto frammentario e ripetitivo, estenuato, lento. A ondate piane, che si ripetono mutevoli e uguali. Insistito, abnorme come la realtà da esorcizzare. Nella forma di un lungo, lento, esorcismo. Dell’infanticidio. Il delitto si esorcizzia con la ripetizione, sfaccettata, di plurimi punti di vista, ma statica, ripetitiva. Un capitoletto è anche in prosa ritmata, in versi.
Una storia di donne. Donne di latte, di carne, di fatica quotidiana, e canti, divinazioni, divinità. Fustate, marchiata a fuoco, mandate alla monta, del padrone, del figlio del padrone, di un altro schiavo, e munte, del latte, proprio come le bestie. Della schiavitù quale era di fatto, una storia sordida di mercati di esseri umani, alla fiera. Spesso magnificata, anche in questa epoca di cancel culture, qui vissuta, senza rivalsa ma nella cruda polemica dei fatti, di violenza impensabile, quotidiana, minuta, percosse, mutilazioni, assassinii, con lo stivale, col bastone, col forcone, con la forca, e la fame, di esseri considerati alla stregua di oggetti, senza stato anagrafico e senza nome – sopravvivere era un lusso, un caso, anche nella logica del mercato, dello schiavo merce da vendere. Addetti alla procreazione, nelle pause notturne delle corvées quotidiane, imposta: ai maschi come stalloni, alle femmine come fattrici. Per produrre nuovi schiavi, sul mercato già ai  sette-otto anni. Terrorizzante nell’apparente anonimità, normalità. Senza polemica, i padroni si commentano da soli. Anche i buoni, la padrona bianca e la serva nera in simbiosi, come nel film, entrambe cuoche, sarte, madri, faticatrici. E i bianchi che “odiavano la schiavitù più di quanto odiassero gli schiavi”, ciò che ha reso – rende? – sterile la solidarietà.
Un’opera narrativa a seguire di un grande lavoro di ricostruzione storica della tratta e della schiavitù che Tomi Morrison aveva condotta qualche anno prima, “The Black Book”, il libro nero dei neri. “Sessanta milioni\ o più”, l’anonimo risguardo, è il numero degli schiavi morti nelle razzie o nel viaggio attraverso l’Atlantico - se ne cacolano quattro, secondo W.E.DuBois, per ogni sopravvissuto, i sopravvissuti alle razzie in Africa e non finiti ai pesci nell’Atlantico. Una ecatombe ricorrente, a ogni grande ondata migratoria, ancorché libera?
Con una postfazione di Franca Cavaglioli, storica curatrice di Italia di Toni Morrison, Nobel 1993. Sportelli fa l’anamnesi del romanzo, circostanziata, puntuta, in fine. Sui bianchi, gli “uomini senza pelle”, diafani, spettrali, che “per riempire di sé il mondo”, conclude lo studioso, “diventano essi stessi un vuoto”. Sulle simbologie di cui la narrazione s’intesse.
Toni Morrison, Amatissima, Frassinelli, pp. 410 € 10,90

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