Cerca nel blog

domenica 31 luglio 2022

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (498)

Giuseppe Leuzzi

“Al Sud si dice: se vuoi stare bene, lamentati”, Franecsco Merlo a una lettrice su “la Repubblica”. In quale Sud – che pure non è segreto, né misconosciuto?
 
Ha molto “Sud” Pasolini appena arrivato a Roma, negli articoli di giornale che scriveva per guadagnare. Venendo dal Nord. Ha i “dialetti meridionali” – non da futuro filologo, evidentemente. Il primo “ragazzo di Monteverde”, che lieviterà nei “Ragazzi di vita”, ha “zigomi leggermente meridionali” – chissà come Pasolini avrà considerato i suoi. A un certo punto vede attorno a Roma “i monti ondulati a catena, allineati, del Meridione”. Il primo trattamento de “La ricotta” finisce in “un mucchio di parenti maschi venuti da Sardegne e da Calabrie, neri, ancora, e torvi, perduti come lupi nella loro alloglossia” – che del calabrese un filologo non potrebbe dire, essendo in tutte le sue declinazioni neolatino, prevalentemente.
 
C’era già il “tripolìn”, “il Napoli” a impestare Torino, un musicista melodico, quando Pavese scriveva il suo primo romanzo, “Ciau, Masino”, nel 1932.
 
Nel cazzeggio fra giovani “studenti” svagati che infioretta buona parte del primo romanzo di Pavese, “Ciau, Masino”, 1932, rimasto inedito, l’intelligentone del gruppo, “l’ebreo” Hoffman, argomenta il razzismo cone una forma di campanilismo – la “napoletanità” o la “sicilitudine” di oggi, in questo caso la “piemontesità”: “Non esistono le razze in quanto si tratta di essere intelligenti, gli uomini sono uguali in dignità. Ma è quando non si pensano, si dicono fregnacce e si ripetono pregiudizi che ci si differenzia. Voi a forza di ripetervi che siete solidi e quadrati e che vivete in certi modi”, dice agli amici, “finite di vivere sul serio in questi modi, e fate i tipi, senza accorgervi delle cose più importanti che c’è al mondo”.
 
Ci sono due Masino in quello di Pavese, uno “studente” spensierato (la vita a Torino), e uno operaio sfortunato (Santo Stefano Belbo, allora non Langhe da cartolina) A un certo punto Masin fra le tante disgrazie ci mette le scuole: “quel vecchio bischero della botanica”, e il professore d’italiano e storia, che leggeva come “uno sposo giovane”, facendo incazzare i ragazzi. “Garibaldi, ‘na rôla – una volta, mentre lo sposo declamava il Carducci, un compagno aveva borbottato, - l’ha mach fane ‘l regal ‘d côj terôn, Garibaldi -. Ed era stata una grande verità per Masin”.
 
Ulisse calabrese, sessuomane
L’ultimo agosto pre-covid, nel 1919, la Regione Calabria e il comune di Siderno hanno festeggiato Lawrence Ferlinghetti, il poeta italo-californiano, per i suoi 100 anni, riaprendo per l’occasione il borgo semiabbandonato originario del paese, Siderno Superiore. Con una mostra pittorica, di suoi schizzi, e “una serie di incontri culturali”, diceva il programma, “reading di poesia, presentazioni di libri, concerti, performance, laboratori di lettura e scrittura dedicati ad adulti e bambini, organizzati con la collaborazione delle associazioni del territorio”. Una manifestazione a cura di Elisa Polimeni, organizzatrice di eventi culturali, videomaker, fotografa, curatrice dell’archivio pittorico di Ferlinghetti, e di Giada Diano, biografa e traduttrice di Ferlinghetti.
La biografia di Ferlinghetti Diano intitola “Io sono come Omero”. In Calabria, “in uno dei suoi ultimi soggiorni”, Ferlinghetti aveva realizzato una seria “Ulisse calabrese”, in chiave erotica – “ironica e moderna”, dice la curatrice: Ulisse indugia, prende tempo, rimanda, perché impegnato in imprese amorose. E Ferlinghetti mandava a dire: “Questa rivelazione delle attività sessuali clandestine di Ulisse nel corso del suo famoso tour del Mediterraneo aggiunge un nuovo capitolo all’Odissea di Omero. Ecco la storia nascosta di Ulisse e delle sue avventure amorose notturne in Calabria. Naturalmente nessuno sa esattamente quante donne egli abbia amato in estatici incontri. (Di certo ha superato di gran lunga le attività sessuali notturne di Leopold Bloom dell’Ulisse di James Joyce)”.
Potrebbe essere un’alternativa: dare un’alternativa a giornalisti e giudici, dovendosi parlare di Calabria - se non fosse che Calabria era in antico, ma Ferlinghetti poteva passarci sopra, fino a impero di Oriente inoltrato, quando un paio di emirati vi si installarono, spingendo Bisanzio a spostare il nome sul vecchio Brutium per non perdere il brand, il Salento della parte alta, verso Brindisi, quella dei Calabri della lapide di Virgilio a Piedigrotta.
Era la seconda o terza celebrazione di Ferlinghetti pittore in Calabria. La prima, organizzata sempre da Diano e Polimeni, a Reggio Calabria nel 2010, “Lawrence Ferlinghetti: 60 anni di pittura”, una mostra di pittura a cui Ferlinghetti aveva voluto presenziare, malgrado l’età avanzata, grato di un’esposizione dei suoi quadri e disegni, in Italia. E qui forse, in riva allo Stretto, era germogliata l’idea dell’“Ulisse calabrese”. La seconda celebrazione, un anticipo di quella di Siderno, era stata organizzata due anni più tardi, sempre ad agosto, sempre da Diano e Polimeni, al castello di Federico II a Rocca Imperiale, superbo borgo al limitare della Basilicata. Un’altra personale di pittura di Ferlinghetti, già intitolata a Ulisse, “Sulla rotta di Ulisse”. Un evento cui il festeggiato partecipò da remoto, in videoconferenza. Illustrato da un prezioso cofanetto limited edition, bilingue, con disegni e versi di Ferlinghetti, “The Sea within Us”, “Il mare dentro di noi – Sulla rotta di Ulisse”. Con prefazione di Jack Hirschman – un poeta, cultore di Pasolini, più giovane di una decina d’anni, che morirà nel 2021 qualche mese dopo Ferlinghetti.   
 
Sotto il segno del Toro
Maristella Lippolis chiama Roma nel suo primo romanzo (“La notte dei bambini”) Tauersiti, una parola mezza maccheronica e mezza inglese, che all’incirca vale per città taurina – nel 2070, ma già s’immagina oggi. Pamplona, col covid e tutto, non si priva di farsi cacciare dai tori infuriati. E si scopre che la corrida si esercitava, e si celebrava in dipinti, a Siena, in centro città, chiamandola “caccia”. A metà Quattrocento: sicuramente nel 1468, e forse anche prima, nel 1466, e anche dopo. Roberto Barzanti lo documenta sul “Corriere della sera-Firenze” (“La «Corrida» dei senesi”): due tele di Vincenzo Rustici, di proprietà degli Uffizi, in deposito nella collezione del Monte dei Paschi, hanno per tema la “caccia” del 15 agosto 1546. Sempre nella piazza del Campo, poi arena del palio equestre.
La tauromachia, sport tra i più assurdi, combattere a mani nude contro un toro, perpetua il vecchissimo culto del toro, pre-ellenico (minoico? miceneo?), animale-totem, personificazione della forza. Nel Mediterraneo è forse il toponimo più diffuso, sicuramente al Sud Italia. Che per questo però non è più forte – forse lo era?  
 
Il nome Italia designava originariamente un piccolo distretto della Calabria odierna”, è l’incipit di una benemerita indagine sul nome delle nazioni, che Livia Capponi presdenta su “La Lettura” di domenica di un mese fa, 3 luglio), “dove un popolo di lingua osca adorava il vitello (vitlu in lingua osca, vitulius in latino), che era la «terra dei tori»”. Con qualche imprecisione: Calabria era, è stato fino al nostro secolo IX, il Salento settentrionale, verso Brindisi e Taranto. La denominazione ricorre già in Erodoto, e in Ecateo di Mileto, quindi nel V secolo. Gli Enotri, “popolazione la cui collocazione storica è discussa”, sempre Capponi, entrano in ballo forse con lo storico Antioco di Siracusa, figlio di Senofane, il filosofo, che si sa essere stato autore di un libro sull’Italia.
Tardi, una moneta datata 90 a.C. a Corfinio in Abruzzo “mostra una personificazione dell’Italia come una dea, accompagnata dalla leggenda Italia in latino, e dall’equivalente Viteliu in osco”. Il nome intanto era arrivato a “indicare l’intera penisola, dalla punta dello stivale fino ai fiumi Arno e Desino” nel 300 circa a.C. - “in un momento imprecisato precedente alla Prima Guerra Punica (264-241 a.C.) – e poi, un secolo dopo, arrivò a includere tutto il Settentrione fino alle Alpi”. O non dopo ancora, dopo la sconfita dei Galli celti a opera di Cesare?
Resta da spiegare il mito vaccino, del vitello-toro. A mano di non dire l’Italia vitello e il Sud toro. Ma in memoria di che?
 
Milano
“Flash art” – “storica rivista di arte contemporanea, dal 1967 sismografo attivo dell’arte contemporanea”, seleziona dieci artiste per “d”, il settimanale di “la Repubblica”. Sette sono di Milano e dintorni. L’ombelico del mondo, senza ironia.
 
“Io sono filo leghista. Bossiano. L’unità d’Italia è stata un errore” – Fedele Confalonieri, l’amico più intimo e il consigliere di sempre di Berlusconi, si diverte spiegando a Cazzullo sul “Corriere della sera”.
 
Fa senso l’alter ego di Berlusconi, suo amico d’infanzia e di piano-bar (quando facevano i piano- bar), suo manager fidato, che fa professione di leghismo bossiano, separatista, antimeridionale viscerale. È il lombardismo, dissimulare e operare. Ma è anche un Sud come Bossi lo dice, incapace e inerme, che ha stravotato Berlusconi, e ora direttamente vota Lega.
 
Confalonieri, presidente dell’Opera del Duomo, ha di Milano una percezione milanocentrica: “Fisicamente non è una metropoli, ma della metropoli ha l’anima. Come Parigi, Londra, New York.  Generazioni di persone sono arrivate qui dal resto d’Italia e del mondo e sono diventate milanesi”.
 
“Milano romantica” è un titolo di Antonio Monti. È la Milano 1818-1848. Il romanticismo italiano è stato milanese – tuttora, Milano è ancora romantica, vive nelle nebbie?
 
Le mani sui fianchi, la giudice Alessandra Dolci, capo dell’Antimafia della Procura di Milano, arringa il consiglio comunale di Milano in seduta speciale: c’è la mafia. Non quella dalle mani sporche, quella che “risolve ogni problema”, riferisce il “Corriere della sera”. Un siciliano, un calabrese, che risolve i problemi dei milanesi?
 
No, è che i milanesi s’industriano nell’illegalità: “Otto volte su dieci è l’imprenditore che cerca i servizi del mafioso, perché è un modo semplice per alterare le regole del mercato,”, etc, etc., la mafia fa fare affari, la mafia crea lavoro, il solito repertorio. Ma, e dunque: perché non arrestiamo gli imprenditori milanesi, se questi mafiosi sono inafferrabili?
 
Secondo la giudice Dolci, sempre secondo il “Corriere della sera”, “è la ristorazione il vero business delle associazioni mafiose, che in questo settore reinvestono gran parte del capitale proveniente dal traffico illecito di droga”. C’è un traffico di droga lecito? Ci sono “associazioni” mafiose? E la droga, perché non cercarla a Milano, che ne è la più grossa consumatrice in Europa? Magari al ristorante.
 
Mentre la dottoressa Dolci parlava, i Carabinieri di Busto Arsizio, poco lontano da Milano, individuavano a Lonate Pozzolo, praticamente Milano, una “cupola della droga”, senza mafia, non italiana, trenta piazze di vendita, nei “boschi dello spaccio” e altrove, nei soli dintorni di Varese, e “il fenomeno” dei “pusher a chiamata”. Con tutte le piaghe connesse: la prostituzione per la dose, il tfr per la dose, la violenza domestica per la dose.
 
Caterina Sforza la sua Forlì ha celebrato come “l ’anticonformista”, in due giorni di commemorazione – “sua” per eredità dal marito, essendo appunto nata Sforza, milanese, che però si tenne stretta Forlì, contro un papa “guerriero” come e più di lei, Giulio II, e altri malintenzionati. Venendo però dall’iperconformismo: a nove anni era già sposa a Girolamo Riario, di nient’altro capace che di essere nipote del papa regnante, Sisto IV – a venticinque vedova con sei figli. Maritata dal padre, il duca di Milano, peraltro celebrato, Galeazzo Maria.

leuzzi@antiit.eu

Nessun commento: