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martedì 26 settembre 2023

La crisi del 2011

Napolitano difese l’Italia nel 2011 o defenestrò Berlusconi? Probabilmente fece l’una e l’altra cosa. Ma l’essenziale ancora manca – senza contare che Napolitano negò la grazia a Berlusconi dopo la condanna burla milanese. .
Dice Cazzullo sul “Corriere della sera”: ho intervistato Berlusconi il giorno dopo le sue dimissioni, il 13 novembre  2011e”tutto in lui indicava sollievo”. Tutto gli consigliava di rinunciare al governo: i rapporti deteriorati con Francia, Germania, Stati Uniti; la corsa dello spread: gli interessi aziendali…”. No, i rapporti non erano deteriorati con gli Stati Uniti.
Sarkozy e Merkel volevano affossare l’Italia, non Berlusconi - incuranti, nella loro saggezza, dell’euro , il cui crollo li avrebbe affossati tutti (nelle prolisse ultime memorie, l’ex presidente francese dice ripetutamente che lui e Merkel salvarono l’Italia e la Grecia, e che fu lui a volere Draghi alla Bce, cioè colui che salvò l’euro – che invece lo salvò contro la Bundesbank, Draghi non deve nulla a Sarkozy). Ma il duo non poté per l’opposizione di Obama.
Il fatto è testimoniato dall’allora ministro del Tesoro di Obama, Timothy Geithner. Ripetutamente, anche con insistenza, nelle memorie “Stress test”. Che solo per caso, malgrado sia di estremo interfesse, a differenza delle tante memorie di statisti americani anche inutili che invece prontamente si traducono, non è stato proposto in Italia?
Può esse utile la rilettura di quanto questo sito spiegava il 6 novembre 2015, a un anno dall’uscita delle memorie di Geithner, sulla crisi europea del debito:
 
Se il debito è colpa, perlomeno in tedesco, credito è credere: “Ogni crisi finanziaria è una crisi di fiducia”. Obama fu deciso ad affrontarla, come il suo predecessore Bush, e questo è il segreto della soluzione Usa. Con Paulson prima e il suo successore Geithner al Tesoro, suggeritori tecnci. Geithner ne dà testimonianza dal di dentro, e insieme fa un assestamento critico delle crisi, da un secolo e mezzo solo finanziarie, finite le carestie e le pesti. Un libro che è un’iniezione di vitalità. Di intelligenza ma soprattutto di energia. Di vis politica. Che l’Europa immiserisce, al confronto inevitabile, dopo sei anni sempre pericolante. Un libro destinato anche a durare, per lo spessore dell’analisi, oltre che ricco di particoari di attualità. Che però non si traduce, benché si traduca di tutto – si è tradotto solo in tedesco.
Il primo problema che Obama si pose appena eletto fu: “Come ristabilire la fiducia”. L’analisi era semplice, l’economia era nel circolo vizioso: la crisi finanziaria – di banche e fondi – aggravava la recessione, e la recessione aggravava la crisi. Inoltre, cinque “bombe” erano pronte a esplodere, in aggiunta al fallimento della banca Lehman Brothers: le banche Citigroup e Bank of America, il gruppo assicurativo Aig, le finanziarie pubbliche di controassicurazione sui mutui “Freddy Mae” e “Freddy Mac”. Più General Motors e Chrysler, “anch’esse sull’orlo del fallimento”.
Un nuovo “massiccio stimolo fiscale”, cioè un intervento pubblico, era necessario, “per colmare il reddito e la ricchezza perduti, rivitalizzare la domanda, creare lavoro”. E per evitare “la lunga collaterale deriva che il Giappone aveva sperimentato nella sua crisi negli anni 1990” – la soluzione adottata poi dall’Europa, benché al Giappone sia costata dieci anni di stagnazione-deflazione. Le cinque “bombe” erano “tutte molto più grandi di Lehman. Tutt’e cinque avevano ricevuto grosse infusioni di denaro pubblico per salvarle dal fallimento; Aig era stata salvata tre volte in quattro mesi. E tutte erano di nuovo in difficoltà”.
Il 27 gennaio, al primo incontro del nuovo segretario al Tesoro con Obama, il presidente disse chiaro: “Strappiamo il cerotto e guariamo la ferita. Voi portatemi la soluzione, della politica m’incarico io”. Il 9 febbraio, come primo atto della sua presidenza, Obama annunciava un piano di stabilizzazione finanziaria. Forzando Geithner che ancora non era pronto. Un intervento, tra spesa e riduzioni fiscali, che avrebbe potuto assommare a 700 miliardi di dollari nello scenario peggiore. Senza contare gli interventi a favore di soggetti non bancari, Aig, General Motors, Chrysler. L’ammontare e i criteri del piano sollevarono molte critiche. Che si provvedesse a salvare “Wall Street e non Main Street”, le banche e i fondi responsabili della crisi e non l’uomo della strada. Non fu facile arguire che Main Street si salvava a Wall Street. Ma dopo appena tre anni la Grande Depressione era stata evitata e anzi l’economia e la finanza erano tornate in bonis. Il Financial Stability Plan di Geithner, con al centro il Public-Private Investmente Fund, un intervento pubblico di salvataggio, condizionato alla partecipazione degli azionisti e investitori, aveva subito ristabilito la fiducia dei risparmiatori e dei grandi investitori, malgrado le critiche politiche.
In un certo senso, come controllore alla Fed di New York, Geithner era responsabile della crisi delle banche, Bear Sterns, Lehman Brothers, Citigroup, Bank of America, se non degli altri soggetti, assicurazioni e case automobilistiche. La saggezza di Obama è stata di usare un “uomo delle banche”, seppure di profilo pubblico, per venire a capo della crisi delle banche, invece di un giustiziere. Uno che conosceva i fili e i nodi della crisi di ognuno dei soggetti – di Bear Sterns, la prima banca in crisi, aveva messo a punto e realizzato il salvataggio e la cessione. Una scelta impopolare, che lo stesso Geithner aveva prospettato a Obama al primo incontro, che però è stata quella giusta.
E l’Europa? Geithner ha avuto un ruolo anche nella crisi europea. Prende poche pagine della sua voluminosa memoria, ma è preciso e sconcertante.
Europa sbalorditiva e inspiegabile
A metà settembre 2008, a crisi manifesta, “la Banca centrale europea aumentò i tassi, il che mi parve sbalorditivo e inspiegabile”. Se non per “un altro round di paranoia da inflazione”, per l’aunento dei prezzi del petrolio. Il governo americano invece lanciava una riduzione delle tasse per 140 miliardi, un’iniziativa bipartisan, per stimolare i consumi e gli investimenti. Mentre la Fed di New York, che Geithner presiedeva, negli stessi mesi spingeva le banche d’affari a ricapitalizzarsi per 40 miliardi di dollari, e a ridure il breve termine e l’esposizione sui titoli rischiosi. Questo non bastò a salvare una delle quattro, la Lehman, ma salvò le altre.
Successivamente due eventi fanno “inorridire” il ministro del Tesoro di Obama, e lo stesso Obama. L’attacco franco-tedesco all’Italia a novembre del 2011 - l’unica parte di questa memoria già nota, riprodotta un anno fa all’uscita del libro - e sei-sette mesi dopo l’attacco tedesco alla Grecia. “L’Europa aveva passato la maggior parte del 2011 nei tormenti”. Il 21 luglio fu ristrutturato il debito greco. Nello stesso mese la Bce di Trichet accresceva l’acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario “per aiutare a puntellare la Spagna e l’Italia”. Ma “l’Europa non persuadeva gli investitori con una strategia credibile”. A ragione il governo tedesco recalcitrava ai salvataggi, perché “i beneficiari del sostegno europeo – la Spagna e l’Italia come la Grecia – non mantenevano gli impegni di riforma”. Ma “la linea che Angela Merkel disegnava sulla sabbia limitava le opzioni” anticrisi. C’era bisogno di un intervento massiccio subito. Di un piano di intervento, che nei fatti avrebbe consentito alla Bce uno sforzo gigantesco a sosteggo del debito e dell’euro, con una “leva” di “piccoli aiuti” pubblici. Le banche centrali canadese e svizzera lo proposero, la Bundesbank lo rigettò.
A un certo punto gli europei presero a rivogersi ai paesi asiatici per finanziare il loro fondo di intervento, “uno spettacolo abbastanza sconcertante”. Giappone e Cina non risposero.
A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, il consiglio europeo dei ministri del Tesoro. Tentò di non andarci, l’invito fu reiterato e pressante, e allora parlò “con umiltà”, scusandosi, schermendosi. Ma non poté non dire: “È più rischioso un intervento a piccole dosi graduale che un intervento preventivo massiccio”. Gelo, e invito a tornarsene a casa dei ministri dell’Austria e del Belgio per conto della Gerrmania. “No leadership”, è il commento interno al Tesoro Usa sull’Ecofin europeo.
Il 26 ottobre fu annunciata una ulteriore revisione della ristrutturazione del debito greco. Fu annunciato anche “un piano modesto per tentare di fare leva sul fondo di salvataggio per movimentare il denaro privato, ma era congegnato male e più che altro sembrò segnalare i limiti di quello che l’Europa voleva fare”.
Via Berlusconi
Quell’aututnno Obama “parlò regolarmente con i leader europei”, e anche Geithner con le sue controparti. Ne ricevettero spesso richieste di intervenire sulla Merkel per una maggiore flessibilità, e su Italia e Spagna per un “impegno responsabile”. Qui viene il complotto: “A un certo punto quell’aututnno alcuni rappresentanti europei ci presentarono un complotto per tentare di costringere Berlusconi fuori dal governo; volevano che rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monteraio finché non se ne fosse andato. Informammo il presidente di questo sorprendete invito, ma per quanto potesse servire ad avere una migliore leadership in Europa non potevamo impegnarci in un complotto come quello”. Geithner ne riferisce come di un approccio e una decisione interna al suo ministero, al plurale, abbandonando la prima persona, afferenti cioè a qualcuno dei suoi collaboratori. E probabilmente per iscritto, poiché Obama non parla. Poi torna al singolare: “«Non possiamo macchiarci le mani del suo sangue», dissi”.
Pochi giorni dopo, ai primi di novembre, si tenne a Cannes il G 20. Obama “passò la più parte del tempo in negoziati riservati, per tentare di aiutare l’Europa a salvarsi. La maggiore parte della conferenza riguardò le pressioni su Berlusconi, ma noi continuammo a premere sulla necessità di un robusto firewall, e ci fu molta pressione anche su Merkel. Merkel si sentì isolata e sotto attacco; non l’ho mai vista così agitata”.
Poi le cose cambiano. Cambiano i governi in Grecia, Italia e Spagna. E alla Bce arriva Draghi. “Ai primi di dicembre Draghi annunciò una massiccia iniezione di liquidità a lungo termine per il sistema bancario europeo”, con “un istantaneo effetto stabilizzatore… L’Europa aveva mostrato un po’ di forza e un po’ di volontà”.  A febbraio, al G 20 dei ministri del Tesoro a Città del Messico, il morale era su: “Gli europei erano sollevati, molti dichiararono che la crisi era finita. Io non lo pensavo. Sembrava più una tregua che una soluzione”.
L’attacco alla Grecia
A luglio del 2012 Draghi impegna la Bce a fare “qualsiasi cosa” sia necessario per salvare l’euro nella sua integrità. Geithner ci vede un’identità di vedute con l’intervento monetario e finanziario americano. Ma è sorpreso – “terrificante” – da Schaüble, che in un incontro successivo gli prospetta come “una strategia plausibile - e anche desiderabile”, nelle sue parole, di Geithner, l’uscita della Grecia dall’euro. Come una lezione agli altri: l’evento, sempre nelle parole di Geithner, “sarebbe stato abbastanza traumatico da aiutare a spaventare il resto dell’Europa, inducendola a cedere più sovranità a un’unione fiscale e monetaria più forte”. E come incentivo all’opinione tedesca a sostenere l’euro, senza più il pregiudizio antigreco.
Schaüble viene presentato ora come la controfigura di Merkel, quello che si prende il ruolo del cattivo per coprire politicamente la cancelliera con il ceto politico più recalcitrante all’idea di eurozona e di Europa. Geithner lo dice simpatico, “engaging”. Ma ha agitato i mercati, aggravando la situazione, più del necessario, molto di più, in più occasioni, troppe.
“A giugno dl 2012 la crisi eurpea bruciava più che mai”, ricorda Geithner. Ma solo Draghi se ne preoccupava. E la risolverà ripercorrendo – in parte e in ritardo – la ricetta americana: “L’Europa non era risucita a convincere il mondo che non avrebbe consentito una catastrofe”. Geithner ha presente, ricorda, quello che tutti sapevano ma nessuno in Europa denunciava: “difese fragili e politiche confuse”. Scrive allora a Draghi per incoraggiarlo: “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancorta a te per un’altra dose di abile, creativa manifestazione di forza da banca centrale”. Draghi sa di doverlo fare ma la Bundesbank non glielo consente. I tedeschi “non avevano un piano per salvare l’Europa ma sapevano quello che non volevano”, così Geithner sintetizza le sue conversazioni con Draghi – “quel luglio Draghi e io abbiamo avuto parecchie conversazioni”: “Davano una lettura limitativa dei poteri legali della Bce, e si opponevano a qualsiasi cosa sapesse di questione morale”, di salvataggi con denaro pubblico (quello che la Bundesbank aveva tranquillamente fatto in casa, va aggiunto).
Qualsiasi cosa
Il consiglio di Geithner è di “lasciare la Bundesbank fuori”. Il 26 luglio uno studio Citigrouprp dà la Grecia fuori dall’euro al 90 per cento. Quello stesso giorno, a un convegno a Londra, al termine di una serie d’incontri con bancheiri e gestori di fondi, Draghi proferisce le parole famose: “Nei termini del nostro mandato, la Bce farà qualsiasi cosa per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Fa l’annuncio, scrive Geithner, sotto l’impressione del pessimismo che ha riscontrato negli incontri londinesi, ma non ha un piano. Geithner va allora a Sylt, dove Scahüble è in vacanza, per tentare di convincerlo. Ne ricava quanto si è già riferito – “lasciai Sylt più preoccupato di prima”. Si ferma a Francoforte da Draghi, che  lo rassicura, ma sempre senza un piano.
Di ritorno a Washington, Geithner spiega a Obama che l’Europa può mettere a repentaglio il programma anticrisi americano. Obama chiede più volte che l’Europa affronti la crisi con decisione. A settembre Draghi annuncia il programma di riacquisto di titoli pubblici europei sul mercato. I mercati si rassicurano, ma per poco. Viene Cipro, altra confusone.
La memoria lascia gli europei in crisi. Tra “impegni sempre confusi e incompleti”, nei “loro tardivi e spesso inefficaci tentativi di imitarci”. Sempre divisi su “un robusto programma europeo di ricapitalizzazione diretta del sistema finanziario, come il nostro”. Incapaci di “un piano effettivo di un sistema comune di assicurazione sui depositi” (quello oggi in discussione). Con una disoccupazione a livelli impensabili, “molto peggiore che negli Usa, una crescita stagnante, … un’austerità mal posta”. La conclusione è triste: “C’era tanta sofferenza innecessaria dietro questi dati”. E orgogliosa: “Gli errori degli europei … fornivano un’ottima pubblicità alla nostra risposta alla crisi”.
Nessuno ha contestato, in questo anno dacché il libro è uscito, la minuziosa rappresentazione di come Geithner ha salvato l’America dalla depressione. Che quindi è da ritenere veridica. Obama ha peraltro terminato il mandato a Geithner al termine della sua prima presidenza – è d’uso rinnovare la squadra al secondo mandato. Che ora si accontenta di gestire il fondo di  private equity Warbug Pincus.
Timothy F. Geithner, Stress Test. Reflections on financial crises, Random Huse, pp. 580, ill, £ 9,99

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