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mercoledì 5 agosto 2009

A Sud del Sud - a Sud di nessun Nord (40)

Giuseppe Leuzzi 

Si può vedere tutto in termini di Nord-Sud: la voce, la pronuncia, la presentabilità, il salario, il costo dell’insalata. Non c’è più Sud per esempio in tv, nei tg, fra i presentatori, gli attori, gli showmen, e chi c’è si camuffa, Fiorello per esempio. Bossi e Milano hanno introdotto questa chiave di lettura. Ora Milano si dice pentita, dice insomma di rifiutarla. Afferma di non avere votato Bossi. Ma l’effetto l’ha già ottenuto: il Sud è chiuso in se stesso, oppure si camuffa.

Muoiono, in una città del Nord, un anziano medico di nome Trifirò, e un giovanissimo pugile di nome Morabito. Entrambi, per ragioni diverse, molto stimati. Ma né i giornali, né i celebranti, né i sindaci che li commemorano alle esequie ne ricordano le origini. Se fossero stati protagonisti di una lite, o peggio di un furto, sicuramente l'avremmo saputo per prima cosa.

Se Riina accusa lo Stato
Riina accusa lo Stato di avere assassinato Borsellino. La politica italiana e i giornali si scatenano. Scalfaro, presidente della Repubblica all’epoca, dopo essere stato ministro dell'Interno, dice e non dice, cioè dice: “Non si può mai escludere che ci possano essere state persone, se non lo Stato, che abbiano tradito. Come non si può escludere che anche n criminale dica a volte la verità". Come no.
Scalfaro non è una novità, è sempre il monaco che dice di essere, del forse che sì forse che no. Ma i terribili familiari di Borsellino, il fratello e la sorella che sulla morte del giudice hanno montato una carriera politica, a sinistra, e la vedova, che presumibilmente è rimasta a destra con il marito, alimentano anch’esse i dubbi. E dunque un mafioso, un nano politica come Riina, illetterato e semianalfabeta, tiene in pugno avvocati, giudici, carabinieri, politici e giornalisti, e questo, ha ragione lui, è lo Stato italiano.
Di questa Italia, in effetti, non si può dire che tiene il Sud in soggezione, è al Sud quello che è ovunque. Ma, poi, è solo un aiutino ai giudici di Palermo, che vogliono condannare il generale Mori, che Riina ha catturato, e non sanno come. Un cosa avvocatesca. Certo, se poi tutto il rumore - Borsellino, Riina, Ciancimino padre, Ciancimino figlio - riesce a portare a Berlusconi... Anche solo per ipotesi. Dov'è la mafia? 

Milano
Barbara Berlusconi si organizza un’intervista, genere del tutto voluttuario, per mandare un avvertimento al suo papà: non barare con le palanche. Lo fa in linguaggio milanese, “divisione equa” tra i figli, “voglio bene al mio papà”, eccetera, ma l’avvertimento non è genere mafioso? Milano ci vuole rubare anche questa letteratura minore?

Bisognerebbe abbattere Milano. Sono vent'anni che non ci dà pace. Ci ha imposto Craxi e poi l'ha dichiarato ladro e contumace. Gli ha anche impedito di curarsi. Ci ha imposto Bossi, sono ormai venti anni, e lo deride. Ci ha privati della politica, lasciandoci i fascisti, ex, e i comunisti, ex, Ochetto, D’Alema e Veltroni, gli infausti Berlinguer boys - con la solita banda di napoletani, è vero: Borrelli, D’Ambrosio, Boccassini, quello dei calzini rivoltati, Di Pietro.

Ci ha imposto Berlusconi, ormai sono quindici anni, e ce lo impone, ma pretendendo di distruggerlo con la moglie cattiva, le amiche della moglie, le figlie, e le puttane di Bari. Per lui fa bombardare dall’estero l’Italia, ogni giorno una bordata. 

Ma che vuole Milano? Si è presi i soldi di tutti gli italiani e li ha fatto sparire, è un paio d'anni che non vediamo un centesimo. Si è presi gli scudetti della Juventus, con l’incredibile Guido Rossi, la coscienza vera della città. Che peccato abbiamo commesso per ritrovarcela sul groppone?

Stati generali con Mubarak convocati da Berlusconi a Milano per farne “la capitale del Mediterraneo”. Ci rubano anche il Mediterraneo, pure tanto vituperato. 

“Corriere della sera”, 22 luglio 2009: “Il caso Milano. Per tornare a dirigere alla Scala, Abbado ha chiesto la piantumazione di novantamila alberi”. Che sarà questa piantumazione? E di novantamila per una ragione specifica, seppure occulta? Non ottanta? O cento? E tutti a Milano? Gli alberi vogliono luce, ancorché piccoli. A un minimo di cento metri quadri l'uno, la richiesta del maestro fa novecento ettari. Non vorrà Milano piantumare il resto d'Italia?

O il numero è solo un multiplo alla Beuys? Cui si deve l'idea. “Il Foglio”, giornale allora milanese, ne rilevava “la morte” il 5 giugno 1996: “Una città che dovrebbe essere governata dal suo Politecnico, dalla sua Scala, dalla sua Banca Commerciale, dalle sue imprese, ed è invece dominata dal mostro grigio e marmoreo di Piacentini, un palazzo di Giustizia che nella sua stessa forma ricorda l'idea di uno stato oppressivo incapace di dare, insieme al rigore, aria, felicità, una prospettiva e il piacere di vivere a una libera città”. Ma le imprese di Milano sono gaglioffe - mancano i “suoi giornali” nell'epicedio. 

Milano non è morta, come si fa a dirlo? Purtroppo. Milano è la capitale della finanza, della moda, del giornalismo, dell’editoria, dell’arte, ma non ha prodotto mai nulla, un autore, un artista, un grande giornalista, un grande sarto: vende il già venduto. È la capitale della pubblicità, questo sì.

Berlusconi di Milano, il 18 luglio: “È una città sporca. Le altre città europee sono più pulite”. Questo si scriveva nel 1993, in “Fuori l'Italia dal Sud”, p. 246: le friggitorie puzzolenti spalancate su piazza del Duomo, l’adiacente piazza dei Mercanti”nascosta sotto dieci centimetri di carte, plastiche, lattine e altri rifiuti”, da anni mai spazzata, benché sia la piazza delle banche, che anno i muri scrostati e gli infissi sporchi di decenni, il centralissimo palazzo dei Giureconsulti abbandonato ai topi, con le imposte inchiodate dei bombardamenti, del 1944.

"Ah, morta Milano, mortorio mosciano", poetava la bella spiritosa Giulia Niccolai - che poi si è fatta monaca, seppure buddista.

Sandra Lonardo non ha colpa dei distacchi e i comandi alla regione Campania. Centinaia. Come del resto nelle altre Regioni e in tutti gli uffici pubblici. Ma il “Corriere della sera” la addita a colpevole. Non lo dice, lo insinua. Illustrando l’articolo con la sua foto, a la necessaria didascalia, Sandra Lonardo, presidente del consiglio regionale campano. È fotografata con Mastella, di cui è la moglie. E Mastella di che è colpevole? Qui la risposta ci sarebbe. Ma non importa.

Nel 1996 la rivista letteraria britannica "Granta" ha dedicato il n. 46 al “Crime”. Con molti ghirigori sul tema, con firme illustri, da James Ellroy a Paul Auster e Italo Calvino. Calvino chiude il volume con due paginette intitolate “La pecora nera”, che cominciano così: “C’era una volta un paese in cui tutti erano ladri”. A fronte del contributo di Calvino è impaginata la foto di un personaggio che, con sguardo ironico, tiene le mani da celebrante a fine messa. Il noto gesto che significa: “Io non c'entro”. 

La foto non ha didascalia. ma per gli italiani il personaggio è noto come Giulio Andreotti. È una bella forma di allusione, dire non dicendo. Di cui Andreotti e la mafia sono maestri. I redattori di “Granta” e Calvino hanno imparato da Andreotti e dalla mafia? O non è il contrario, che la realtà impara dalla finzione? Calvino che nel 1975, quando vinceva Berlinguer e il Pci, se ne andò a Parigi. 

L’idea del Sud 
In “Roumeli”, famoso libro di viaggi di cinquant’anni fa nella Grecia di Centro, con alcune digressioni, una, la più brillante, l’autore, lo scrittore inglese Patrick Leigh Fermor, fa sulle due anime del greco contemporaneao, il romios e l’elleno, con un lunga tavola di caratteristiche psicologiche appaiate per i due tipi. Molte caratteristiche dei romioi (leggi ròmii) sono calabresi, se non tutte: realismo, individualismo, ambizione privata, leguleismo, istinto, improvvisazione, empirismo, provincialismo, retorica classica, sfiducia nella legge, saputismo, incostanza, sensibilità eccessiva, collera improvvisa e violenta... Leigh Fermor ne elenca 64, e tutte potrebbero essere molto meridionali. La vera categoria potrebbe essere ionica, come opposta all’attica, o egea. La filologica digressione è insomma una caricatura, purtroppo non voluta. Le generalizzazioni delle psicologie nazionali sono povera psicologia e povera scrittura, per quanto pettegola. Su una caratteristica ròmia Leigh Fermor si dilunga, la stenachoria, l’acedia latina, la malinconia immotivata: “Del tutto inatteso, questo sovraccarico di energia e estroversione si inietta della più delicata sensibilità, talvolta di suscettibilità, in cui uno scherzo o uno sgarbo, anche immaginario, può rendere il mondo nero e precipitare la sua vittima nella malinconia e il languore, quasi fino al mutismo. È compito degli amici diagnosticare l’angoscia ed esorcizzarla; non sempre un compito facile. Questo demone incombente, somigliante alla tribulatio et angustia dei Salmi, i greci chiamano stenachoria”. Ma per fortuna, dice Leigh Fermor, che “il loro senso della commedia è anch'esso pronunciato”, cosa, aggiunge, “tanto più notevole in Grecia se pensiamo ai suoi vicini”, iracondi e tristanzuoli, tra i quali mette il Sud d’Italia Che invece si esprime al meglio con l’ironia e lo scherzo. Tutto quello di cui altri viaggiatori britannici si sono dilettati, per esempio in Calabria Craufurd Tait Ramage, Edward Lear, Norman Douglas - anche se è vero che l'“abito” meridionale, che si confeziona a Napoli e Palermo, si vuole tragico, e che Ramage e Douglas erano scozzesi e non inglesi. In un breve ripensamento alla sua scrittura da giramondo, Leigh Fermor rileva "una morosa dilettazione a ricordare, quando tutto è finito, squallore e tribolazione". E fa questo esempio: "Il mantello calabrese di Gissing si poggia momentaneamente sulla spalla". Ma Gissing si ricorda unicamente per il suo pellegrinaggio sulle rive dello Jonio. C'è un distinto anglocentrismo tra gli scrittori inglesi di viaggi, che più spesso sono tristi, non come Craufurd Tait Ramage, Edward Lear e Norman Douglas, che invece in Calabria si divertirono. Ma il Sud resta peculiare. Ne “I suoni del mondo greco”, che è il capitolo finale di “Roumeli”, una fantasia d’autore, Leigh Fermor sintetizza il vasto mondo che fu - ed è - greco: “La Sicilia e la Magna Grecia sono note impercettibili di musica sotterranea. L’Aspromonte è il suono del psi rovesciato (una lettera dell’alfabeto greco che ha forma di tridente, n.d.r.), il simbolo di Poseidone che si perde nella marea montante della Calabria. La Puglia e il Salento sono le parole bizantine che si restringono nella parlata otrantina. Stilo una covata di chirielesion nell’ala...". “Sei greco?” si diceva in Grecia fino a prima della Grande guerra “romios eisai?, sei romano. Erano peraltro rumi, romani, i greci per il mondo islamico, la Persia e gli arabi. Romios era per i greci greco ortodosso, elleno era pagano o, Dio ne libri, ateo. Nel greco parlato, nelle canzoni, nei proverbi, nella poesia popolare. Sono ancora chiamati rum dagli storici i possedimenti bizantini in Asia Minore. Mentre gli attuali Balcani erano chiamati Romania in Europa occidentale fino al tempo delle Crociate, e Rumelia dai turchi. Ora romios suona un po' levantino. La parola turca per gli antichi greci è yunana - ionici - e la Grecia Yunnanistan.

Delfino, la forma dell’ironia 
“La mafia non ha pensionati” è di Antonio Delfino, “Il Giornale”, 20 marzo 1995. Grande scrittore, misconosciuto, ma non minore dei tanti scrittori riconosciuti di cui la sua Bovalino è ricca. Delfino è lo scrittore che dà forma all’ironia. Non per l’impianto, sempre rispettoso del reale, ma per il guizzo, lo scarto. In parte esopico, bonario, in parte sferzante, molto calabrese. Per l’urgenza stessa dell’evento, che Delfino non banalizza mai. E anzi nell’economia stessa dell’aneddoto, talvolta abbreviato in un gesto, una smorfia, una pausa. L’aneddoto è sempre reale, e imprevedibile, traslucidato dalla verità, sotto la forma dell’ironia. Che è nel Dna dell’uomo del Sud più di qualsiasi realismo magico. L’ironia è subdola in letteratura, chiunque abbia letto “Gulliver”, anche solo in riduzione per ragazzi, sa che può riuscire noiosa, e quindi incoerentemente presuntuosa. Delfino le dà forma coerente nel racconto breve, anche micro, l’aneddoto appunto. Forma letteraria autoctona, ovunque in Calabria, in tutti i ceti e le balze, e più torno torno all’Aspromonte, l’apologo breve, anzi istantaneo, la battuta aspra e compassionata. Un’eccezione, purtroppo. Nel Novecento la Calabria in letteratura è un modo dei vinti, con l’eccezione del brio di Delfino e di alcuni reportages di Alvaro - cui però si deve lo stigma perdente, per l’esito di “Gente in Aspromonte”, durevole anche in epoca di disincanto, malgrado l’evidente barocchismo, insomma l’artificiosità. In “Partita rimandata. Diario Calabrese”, amorosamente raccolto e curato da Valerio Cappelli, il solito Savinio, che tutto prende a pretesto, usa un viaggio elettorale di tre giorni al seguito di Roberto Tremelloni nell’aprile 1948 per le sue godibili divagazioni. Spesso anche centrate. La grecità impoverita e trascurata. L’ignoranza della storia locale tra i locali, e la supponenza. L’aborto del Risorgimento nel Garibaldi senza testa di piazza Garibaldi a Reggio, e nella toponomastica: il Risorgimento ha istupidito l'Italia. Reggio è “città senza età né statura” - nel 1948, e oggi? I calabresi sono greci spuri, non avendo leventia, la “valentia”. I briganti erano i kleftes greci patrioti, i partigiani... Il suo vero Sud Savinio l'aveva del resto scritto a inizio d’anno, sul “Corriere della sera”, in un articolo intitolato “La luce viene dal Sud”: la modernità è settentrionale, l'antichità è - non era, è - invece meridionale. Un “mondo aperto, mondo sconfinato” opposto al “mondo conchiuso”. Che non è - non sarebbe - peggiore: “Significa non vivere più nell’ossessione dello sconfinato”. Anche il cattolicesimo si fa per questo apprezzare rispetto al protestantesimo, per “l’orrore della solitudine e il profondo bisogno di un mondo conchiuso”, euclideo. 

leuzzi@antiit.eu

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