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mercoledì 15 gennaio 2020

Povera madre del figlio Nobel

“Dalla beatitudine dell’orrore la beatitudine del ricordo”. Un esercizio crudo in pietas, quindi falso. Sulla madre da poco morta, cinquantenne, suicida. Una dissezione fredda: la costruzione, si sente, di un caso letterario – quarta o quinta uscita dell’allora scandalistico (avanguardistico) Handke, austriaco di campagna, in Carinzia, per maggiore effetto trapiantato a Berlino.
Il 10 aprile 1938, domenica delle Palme dei buoni cattolici austriaci, “il giubilo sembrava non conoscere confini”, all’Anschluss con la Germania hitleriana. Comincia così, con una professione antinazista, il racconto della madre morta, di quando era una ragazzetta: “«Eravamo molto eccitati», raccontava la mamma”. E non si riprenderà: è una sciocca, e perdente. Inafferrabile, una vita non vita.
Una vita che è un pretesto per divagazioni dello scrittore sperimentale – diverso. Poco significanti, non conseguenti: evocazioni. E una strana compassione, in forma di rimbrotto. Costante, perenne. In qualsiasi istante di vita di una donna che, in pochi anni, le aveva passate tutte, ragazza di campagna, Hitler, l’emigrazione, un figlio con uno sposato, Berlino nella sconfitta, che presto diventa Berlino Est, il ritorno al paesello in Austria, un marito presto trascurato, due o tre altri figli, aborti, etilismo del marito, emicranie soffocanti di lei, e botte, sue e del marito. Una storia non esemplare, e non particolare. Sociale, sociologica. Finita la lettura, uno pensa: povera donna, avere avuto un figlio scrittore, ammirato e premio Nobel, così anaffettivo – un pezzo di legno, parlante, un pinocchietto, selvatico.
La narrazione per estraniazione era, e sarà, il segno di Handke, e c’è poco da dire, può non piacere ma gli ha meritato il Nobel. Il personaggio – la madre – è ben definito e sicuramente resta nela memoria, ma per la freddezza che la circonda. Donna avventurosa, che ha lasciato ragazza la campagna per Vienna e la Germania, ha lavorato, si è sempre innamorata, anche se di uomini sbagliati, ha fatto tre o quattro figli, che ha cresciuti, e finisce preda di nevralgie indomabili. Non accudita dai figli, Handke è uno, che la ricorda senza un segno di affetto. La storia si può riassumere così, in senso buono. Ma per rispetto.
Handke è uno dei tanti austriaci grandi e grandissimi scrittori  della finis Austriae che non sono in pace con se stessi, Musil, Th. Bernhard, Jellinek, Ransmayr – Bachmann si salva tedeschizzandosi,  il compleso di colpa annegando nella storia (o nel rapporto con Celan). Nella storia impietosa della madre Handke carica il passato personale della donna, che tutto fa apparire coraggiosa, avventurosa, con quello generazionale dell’Austria. La madre persona dice del resto di aver scoperto solo poco prima che morisse, in una improvvisata estiva, quando la trova discinta sul letto: “Come in uno zoo, giaceva lì davanti a me l’abbandono animalesco fatto carne”. La madre che scopre – all’animalesco segue “l’idiozia della sua vita”- è l’effetto di questa veduta, dell’occhio del figlio.
La storia il racconto finisce per essere dell’insensibilità attorno a lei, del figlio compreso: “Temeva di perdere la ragione. In fretta, prima che fosse troppo tardi, scrisse ancora qualche lettera d’addio”. Senza risposta. È strana, ma sa scrivere lunghe lettere. Senza eco.
Peter Handke, Infelicità senza desideri, Garzanti, pp. 84 € 12

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