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giovedì 22 novembre 2007

Dieci anni fa si telefonavano i giornali

Le telefonate tra capi-struttura erano anticipate negli anni Novanta dai grandi giornali. I due estratti (da Giuseppe Leuzzi, “Mediobanca Editore”, Edizioni Seam, pp. 143-145, e 209) ne danno significativo spaccato.

C’è molto fluff nei giornali, ne sono sopraffatti perfino i grandi quotidiani d’opinione. I redattori che il 2 aprile 1996 hanno bocciato il “Corriere della sera” di Paolo Mieli si riferivano al loro giornale come a un “giornale in minigonna”. Più spesso che no si ha l'impressione di leggere Benedetto Marcello e il suo “Theatro alla moda”, al capitolo La Rifa, “o sia un metodo sicuro per ben comprendere l’OPERE ITALIANE all’uso moderno”: “Una gran Cassa piena d'indiscretezze, Sussieghi, Pretensioni, Vanità, Risse, Invidie, Poca Stima, Maldicenze, Persecuzioni, etc.”, con dentro “un Borsone a gucchia con (ricamato di, n.d.r.) molte Vigilanze, Accuratezze, Attenzioni, Vigilie, Occhiate, Buone educazioni, Pretensioni di prima e seconda Parte, etc.”.
Ricorrente è l'accusa di “femminilizzazione” dei giornali. Nel senso che sono “leggeri come il vento”, al dire di Veltroni. O nel senso dell'”Espresso”, che nel pieno della polemica dei suoi eminenti collaboratori Bocca e Eco contro il giornalismo fluff ha pubblicato un consistente reperto di antropologia iconografica su “Il fattore C.”, con “20 pagine posteriormente corrette”, annuncia la copertina, dove C. sta per una parte dell’anatonia, prevalentemente femminile, di cui il giurì della pubblicità approva da un trentennio l'immagine ma non ancora la parola. Oppure nel senso che, molte essendo ormai le donne giornaliste, “la progressiva femminilizzazione di questa professione invece di migliorarla l'ha persino peggiorata”, nel giudizio che l'antropologa Ida Magli ha confidato a Marisa Fumagalli su “Sette”.
Ma pesa anche una greve uniformità. Per un fatto non di gusto nè di mercato, ma del monopolismo nella proprietà dei maggiori giornali, che direttamente o indirettamente fa capo a Mediobanca. Gli anni Novanta si caratterizzano tecnicamente per un giornalismo detto in gergo di “branco”, nei settori sensibili, che sono la politica, l'economia e la cronaca cittadina. Il giornale è organizzato nei dettagli dalla “struttura” - il direttore, i suoi vice e i capi-redattori - in sintonia con gli altri giornali. I giornali maggiori, “Corriere della sera”, “Repubblica”, “Stampa”, “Sole 24 Ore”, “Messaggero”, si tengono in contatto fra di loro e, all'esterno, con il “TG 1” e il “TG 5” e con appendici variamente configurate. Un canale politico, per esempio, corre tra “Repubblica” e “L'Unità”, e tra alcuni giornali moderati e “Il Sole-24 Ore”: i servizi di settore sono sempre in armonia, se non identici. I capi-redattori si tengono in contatto durante la giornata e concordano, anche se informalmente, sia il peso che l'orientamento da dare agli eventi, e perfino la “scansione”, la successione dei vari argomenti nelle pagine.
L'informale coordinamento nasce da un'ansia di completezza - evitare i “buchi” - che è in realtà una forma di autocensura: evitare una lettura dei fatti troppo difforme. A una certa ora del pomeriggio, tra le cinque e le sei, il direttore fa le scelte e i giornalisti dei settori sensibili cominciano a redigere il loro compito, sui messaggi ricevuti dalle agenzie e dalla struttura, con l'aggiunta di qualche dettaglio appreso per telefono. La differenziazione in questi settori avviene per i commenti dei collaboratori, e le coloriture e le interviste degli “addetti alla scrittura” - oltre che per le libere impostazioni dei settori non sensibili, gli esteri, la cultura e lo spettacolo, lo sport.
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Il collettivo dei direttori
L'élite più sincrona e consistente degli anni Novanta è peraltro quella dei direttori di giornale, che, ha spiegato Paolo Mieli a “Prima Comunicazione”, si sono costituiti in un “collettivo intellettuale”, o “collettività di professionisti dell’informazione che ritengono di avere ruolo e responsabilità nel guidare l'opinione pubblica”. Non retori della missione del giornalista, ma “una fascia colta della borghesia che prende coscienza di essere stampa non perchè ha il tesserino della corporazione, ma perchè scopre di appartenere a un collettivo intellettuale che ha ruolo e responsabilità civili”. Di questo collettivo Mieli ha nominato Scalfari, Ezio Mauro, Alberto Statera, Giulio Anselmi, Vittorio Feltri, Enrico Mentana, Carlo Rossella. L'idea del collettivo è stata dello stesso Mieli: “Era un’ideologia che ho teorizzato prima di metterla in pratica. Ognuno portava nel collettivo un patrimonio di amici, di conoscenti, che diventava patrimonio di tutti”.

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