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giovedì 14 maggio 2015

Cose Nostre in Procura

Il metodo sommesso e giusto di combattere la mafia. Che si è nel frattempo autosconfitta con le stragi, opera di assassini dal cervello corto, i Riina, i Provenzano, confermando la quieta saggezza di questo Falcone, come Marcelle Padovani ha saputo capirlo.
Una riedizione per più aspetti commovente. Anche se drammatica, un atto di accusa più contro la giustizia che contro la mafia: il libro è alla rilettura una testimonianza a futura memoria. Non che Falcone sapesse, ma era evangelicamente preparato. Sembra irreale oggi, che lo si celebra come un santino, ma venticinque anni fa, nel lungo isolamento che mise Falcone nel mirino di Riina, Marcelle Padovani fu l’unica sua áncora a sinistra.
Di lui oggi si può dire senza esagerare che ha portato alla sconfitta della mafia, che si voleva invincibile. Da vivo e da morto. Con la modestia dei forti. “Faceva parte di quella categoria”, ricorda Padovani, “di servitori dello Stato che considera «normale» che il suo impegno possa diventare sacrificio”. Ma c’è modo. Il giudice veniva deriso in lettere minatorie dall’interno del palazzo di Giustizia (“il Corvo”), bocciato per ogni carriera dai membri compromissori del Csm, Dc-Pci, a cominciare dall’incomparable vicepresidente Galloni, denunciato ripetutamente come colluso con la mafia in tv da Santoro e Leoluca Orlando. Marcelle Padovani sarà anche a lungo la sola ad averlo capito, prima dell’imbalsamazione e la santificazione. È stato ucciso perché era solo, scrisse sul suo giornale, il “Nouvel Observateur” dopo la strage - giusto il precetto da Falcone a lei dettato.
Solo no, osteggiato con asprezza. Dai magistrati, le loro associazioni sindacali, il Csm, e da una parte della politica, il Pci-Pds, oltre che da Leoluca Orlando. Che si giustificavano con la terribile legge pintacudiana del sospetto. Orlando fu terribile perfino in morte di Falcone. Gli imputò ogni perversità. Benevolmente accolto da “l’Unità”, dalla “Stampa” di Marcello Sorgi, e perfino dalla stampa tedesca – Orlando pretende di essersi addottorato a Heidelberg. Uno che ha sempre preso i voti della mafia, in tutte le sue elezioni, talvolta col 100 per cento della sezione – a sua insaputa naturalmente.
Falcone fu vittima della Superprocura antimafia, che è il suo progetto più innovativo: l’unificazione delle indagini sparse di mafia. Gli negarono per questo la Procura di Palermo, e poi la Superprocura stessa. I giudici ci videro la possibilità di un raddoppio delle carriere e gli fecero una guerra micidiale, per ridurre la Superprocura a un simulacro,quale è ora, un carrierificio. Spartendosene l’eredità, dopo Capaci, in cento Procure antimafia circondariali, con cento Procuratori Capo, e cento Vicari, a Palermo come a Belluno. Una tombola, il raddoppio delle carriere: l’avidità dei giudici non conosce limiti.
Falcone sapeva che un problema di autonomia si prospettava. Della Superprocura dice qui a Marcelle Padovani: “Esiste indubbiamente il problema del suo assoggettamento al potere politico”. Anche perché “un coordinamento fortemente centralizzato non può essere totalmente separato dagli altri poteri dello Stato”. Ma non era questo il problema dei suoi compagni e colleghi, era il posto.
Il seguito getta una luce sinistra sulla perspicacia e la ragionevolezza di Falcone, tra gli stessi ambienti che poi se ne sono fatti il santo protettore, giudici e media. Ancora nel 2004, la sentenza della Cassazione sul fallito attentato all’Addaura, benché greve di allarmanti ipotesi, ottenne sui grandi giornali del 20 ottobre solo una breve. Una sentenza che diceva tutto ma per non dire quello che tutti sapevanoe sanno: un “infame linciaggio” denunciando, messo in atto contro Falcone per “delegittimarlo”, proveniente anche da “ambienti istituzionali”, nonché da “imprudenti” e “autorevoli personaggi pubblici”, che hanno consentito ai “molteplici nemici del giudice d’inventare la tesi dell’attentato simulato”. M senza fare i nomi. E senza dire che il processo si era fatto perché il giudice Falcone era stato sospettato di essersi inventato l’attentato per farsi pubblicità. Dal Pci, dai giudici Domenico Sica, capo dell’antimafia, e Franceso Misiani, allora del Pci, e dal colonnello dei carabinieri, poi generale, Mario Mori, che invece è di destra.
Una vicenda che era stata un segnale: dal polverone sull’Addaura Falcone emerse isolato, e questo significò che si poteva colpirlo. L’isolamento è confermato dai fatti reali, come si sono succeduti. E dalle informazioni buonissime di cui Riina dispose su Falcone, che gli consentirono l’attentato di Capaci logisticamente così complesso e riuscito – la reazione confusa all’assassinio Falcone confermò ulteriormente Riina: colpire Borsellino.
“Che l’attentato alla verità sia un ingranaggio, che ogni menzogna ne trascini con sé, quasi necessariamente, molte altre, chiamate a darsi, almeno in apparenza, scambievole appoggio, l’esperienza della vita lo insegna e quella della storia lo conferma”, Marc Bloch l’ha già scritto al cap. terzo dell’“Apologia della storia”: “Ecco perché tanti celebri falsi si presentano a grappoli… La frode, per sua natura, genera la frode”. Non è facile, “inventare presuppone uno sforzo dal quale rifugge la pigrizia mentale comune alla maggioranza degli uomini”. E allora ecco l’invenzione opportunista: l’interpolazione, la connessione, il ricamo.
A Palermo il gesuita scienziato politico Ennio Pintacuda celebrò i funerali dicendo che la morte di Falcone era opera dell’Antistato. La stessa cosa aveva detto per Salvo Lima. Pina Grassi, deputato Verde, disse invece che era stata strage di Stato, perché, riferì il “Giornale”, “l’agguato è stato teso in una zona vicina a una base Nato strettamente sorvegliata dai militari”. Alla commemorazione dopo il funerale Claudio Martelli disse ai magistrati a Palermo: “Le amarezze più sofferte gliele hanno inflitte quei suoi colleghi che lo hanno talvolta legittimamente criticato e talvolta calunniato”. E aggiunse che Falcone voleva querelarsi. I magistrati abbandonarono in massa la cerimonia, offesi.
Sempre a Palermo, prima ancora dei funerali, due giorni dopo la strage, il grillo parlante Galloni aveva difeso il Csm, che opponeva il procuratore di Palmi, il missino Agostino Cordova, a Falcone come capo della Superprocura antimafia. Aggiungendo che il Consiglio doveva difendere l’indipendenza dei giudici. “Implicitamente”, notò Liana Milella sul “Sole-24 Ore”, “conferma le accuse di scarsa indipendenza fatte a Falcone. Non solo: nega che per la sua esperienza della mafia il magistrato rappresentasse un unicum”.
Giovanni Falcone-Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra, Il Sole 24 Ore, pp. 180 € 8,90

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