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giovedì 21 maggio 2009

Strindberg paranoico paraculo

Autobiografia come invenzione - è genere letterario, si sa. E in specie le derive della convivenza: per cui si finisce martiri, tollerando il brutto, oppure ipocriti, tollerando le violenze piccole e grandi e le ingiustizie, per quieto vivere o remissività, avviliti per amore di pace e sensi di colpa. Paranoici infine, dopo tanti errori non contestati, avendo rinunciato a se stessi. A Strindberg è stata addebitata la paranoia figlia della misantropia, che però questo libretto smentisce, giocando la misantropia sul suo terreno – del resto sono le donne, seppure è vero che l’hanno distrutto in casa, a creargli un monumento in teatro (le “Figure di donne” di Lou Salomé spiegano tutto). Strindberg si situa solo, e si fa la sua città: la storia, i giardini, le case, le prospettive, gli amici che non ha, quelli che ha. Che di più creativo? Immagini tutte vivaci, con un monumento a Stoccolma tra i tanti (e a Balzac, a Goethe, al libro di devozioni cattolico, all’infanzia e all’amore per l’infanzia, e viceversa al piccolo mondo degli anziani) in questo deserto di solitudine, che l’autore spesso sottolinea, suggerendo più di un risvolto autobiografico. Strindberg è un paraculo, si direbbe a Roma, di cui Bergman è figlio “legale”, per il maledettismo ben governato.
August Strindberg, Solo

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