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sabato 5 febbraio 2011

Letture - 52

letterautore

Arbasino – L’unico autore italiano non premiato.
Non concorrere ai premi fa, questo solo, un autore.

Bibbia – È un testo sacro, ma anche comico. Esagerato, sprezzante, perfino volgare. Noè, per esempio, che inventa il vino dopo il diluvio universale.
Dice Origene nel commento al “Levitico”: “La Scrittura è costituita, in un certo senso, da un corpo visibile, da un’anima che si può conoscere attraverso il corpo, e da uno spirito che è l’esempio e l’ombra dei beni celesti”. Questo lavoro, immenso e lunghissimo, di redazione fu svolto sotto un cielo terso, dentro un’aria profumata, tra le acque fresche, che fanno il paradiso dei poeti. In tutt’e tre le dimensioni di Origene la Scrittura ha posto per il sorriso. Il comico s’identifica più spesso col corpo: ma è una forma di conoscenza, per quanto bassa. E non è pensabile che i “beni celesti” di cui la Scrittura costituisce “l’esempio e l’ombra” escludano il riso.
Perché escludere che uno, o due, o tre, dei tanti redattori della Bibbia abbiano avuto spirito comico e l’abbiano travasato nella Scrittura? Con finezza, come un testo sacro richiede. La Bibbia si compone di visioni e profezie, maledizioni, invocazioni, atrocità, storie d’amore fedele e d’amore infedele e anzi assassino, eroismi, sublimi o banalmente quotidiani, tradimenti – beneficiando dell’ombra della luce, dice Clemente d’Alessandria: “L’ombra della luce non è tenebra, ma illuminazione”. Ma è ben artefatta.
La Palestina ne era un’ombra, come la stessa Scrittura. Che oggi in Palestina si sia instaurata cattiva coscienza (è la cattiva coscienza che riduce il comico all’ironia – che è una forma di aggressività – di se stessi, l’unica forma di comico che in quella regione persista), questo non impedisce che nei tempi andati essa fosse “libera e bella”, direbbe il Vate, come ogni altro angolo della terra.:

Dandy – Al tempo di Baudelaire era parte di un’aristocrazia, che rifiutava sdegnosa la massificazione incipiente. Oggi è un isolato un po’ disperato. Braccato dalla civiltà dei consumi, che immediatamente pubblicizza tutto, e quindi anche ogni trovata d’ingegno, di gusto, d’élite, impoverendolo delle sue stesse qualità.
Si salva facendo il pesce pilota della fascia di consumi che pretende al rinnovamento e al buongusto: il sistema della moda (Simmel, Barthes). Ma da pagliaccio: sberleffato prima, quando avvia la moda, e dopo, quando la sua moda è di massa. La massa è infettiva.

Diavolo – Belzebù è il “principe dei diavoli” secondo Dante. Che però non conosceva l’ebraico, che la parola ha coniato, ba’ al zebūb. Col significato, si dice, di “dio mosca”, o “dio delle mosche” o “dei vermi delle mosche”.
Era diffusissimo: le città erano per i moralisti post-medievali sedi di Satana.

Donna – Sono stati i greci a dividere la donna. In tre: madre-genio domestico, prostituta, vergine. Ad assolutizzarne il modo d’essere, fuori da ogni realtà.

Fallimento – “Nessun uomo che possegga ancora della vanità può essere considerato un fallimento completo”, Max Beerbohm, “Enoch Soames”, in “Storie straordinarie”, 74. C’è una dignità dell’insuccesso, che non è solo revanscismo.

Fascismo – Ha radici italiche insospettabili, risorgimentali: o Roma o morte, ci siamo e ci resteremo, la parola è d’acciaio, il posto al sole, il destino – e la terra, il ferro, la spada, il pugnale, l’aratro. Il mito del pugnale è durato un secolo e mezzo (Chénier, Puškin) perché le radici ultime sono nella rivoluzione francese. Anche la pretesa a una nuova era.

Gadda– È stato giovane bello, alto, magro, appassionato. Quando finì prigioniero a Celle in Germania, con Buonaventura Tecchi e altri giovani altrettanto appassionati della guerra. Poi frequentatore di salotti, sempre amoroso delle belle dame, purché non sciocche. Non il manzoniano cav. grand’uff. spaventato dei suoi maturi aficionados (Parise, Arbasino, un po’ meno Cattaneo). La sua prosa è giovane – si legge meglio giovane: irrituale, e un po’ scettica.

È riconosciuto come gaddiano a Roma. La diversa felicità personale delle testimonianze romane (Cattaneo, che pure è tanto fiorentino, Contini, Parise, Citati, Arbasino…) e in quelle malevoli fiorentine (con l’eccezione di Giorgio Zampa, a sua volta molto romano). Dopo essere fuggito, senza ritorno, da Milano. A Roma Gadda si sente abilitato a scherzare, pettegolare, spernacchiare, buttare giù la maschera della nevrosi – si pensi alle tragicommedie dei premi, Strega, Formentor. E vi è riconosciuto come autore comico – come autore.

Inglese – È la lingua di tutti perché non ha grammatica né sintassi? Ma è ricco di ottima letteratura, nonché di filosofia, ed è insuperato nella narrazione, d’invenzione e storica.
Morfologia e fonetica sono le basi naturali di una lingua. Ma l’italiano, che “ha l’ortografia più semplice e più logica del mondo” (P. Louÿs, “Archipel”), non lo parla nessuno. Mentre la lingua di tutti è quella che ha le peggiori morfologia e fonetica. È l’indistinto il segno prevalente della comunicazione, preferito? Come della narrazione: la comunicazione è narrazione, anch’essa.

Italia – J.Giono, nel fulminante “Voyage d’Italie”, vi trova la grandezza (la felicità) dell’ordinario: Machiavelli al suo tempo non era Machiavelli, né uomo di corte odi potere, era l’oste, il barbiere, il droghiere.

Petrarca scrive a Urbano V, nell’autunno del 1366 (“Senili”, 7,1) di una discussione col cardinale Guy de Boulogne, il quale sosteneva che l’Italia è bella ma la Francia meglio governata. Petrarca ribatte che l’Italia può sempre governarsi bene, ma che la Francia non può darsi una natura variata e bella quanto l’Italia. E se fosse la natura a rendere impossibile il buon governo?

Kafka - Ha nelle lettere, compresa quella al padre, e nelle parti meno cesellate uno stile rococò, l’agudeza dell’angoscia, che molto nasconde invece di rivelare – es. le “Lettere a Milena”, p. 152. Nascondere nella narrazione rende: è il thrilling di Kafka. La scrittura però resta sempre sopra (o si dice sotto?) le righe. È “una forma di preghiera” per la componente rituale, non per quella liberatoria.

Le lettere a grafia di Milena, ma non scritte da lei, che giravano per Praga (ib., n.83) chi le ha scritte, chi era il grafologo? Poteva essere il marito, o Max Bord, o Kafka stesso.

C’è in tedesco una scrittura piana, dopo Goethe? Il grande uso che Kafka fa del tedesco burocratico, germanico o austriaco, potrebbe non essere ironico.

Borges (“Altre inquisizioni”) immagina Kafka un Supereroe postero – sarà Kafka, dopo un secolo, a dare carattere kafkiano a un racconto di Hawthorne. E anche nelle vesti di Precursore. Non è più semplice dire che Kafka ha inventato Kafka? Certo non quadra con l’immobilità (circolarità) degli esseri, la chiave di tanto Borges.

È la materializzazione dei limiti di Freud, la cui analisi è confinata alla fisiologia. Vive e scrive dark perché non è uscito dall’ombra del grande Padre. Padre come alterità, cioè mondo esterno o reale, con le guerre, il dopoguerra, il lavoro, la convivenza obbligata, la malattia, e padre come se stesso, come materializzazione del suo essere, la coscienza di un modo d’essere. Qui è per esempio la radice dell’eterno (non sveviano – Svevo si sposò, che era anche un manager e un imprenditore) rinvio del matrimonio. Kafka non teme la donna. Con Cora Diamant vivrà solo e isolato, in una città a lui estranea e in subbuglio, tra riti femministi ch’egli non comprendeva, senza soldi, con cure insufficienti, uno strato di mancanze per lui del tutto nuovo, a cui non ci si allena in età adulta. Né temeva i figli, se stava a suo agio tra i nipoti e i bambini. Temeva la vita familiare, impersonata dalla patria potestas, il cardine del rapporto tra il personale (affetti, abitudini, piccoli misteri e piccoli drammi) e il reale.

letterautore@antiit.eu

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