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mercoledì 13 aprile 2016

Il Sud nasce con l’unità

Settembrini, il giurista patriota casertano che i Borbone avevano condannato a morte, lascia questo testamento spirituale ai suoi allievi all’università nelle “Ricordanze della mia vita” che saranno pubblicate postume: “Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, perché è sua la colpa di questo”. Di questo, cioè: “Se egli avesse impiccato noialtri, oggi non si sarebbe a questo: fu clemente e noi facemmo peggio”. L’unità avendo precedentemente sintetizzato in “pane e libertà con la balestra”. Il tradimento delle buone intenzioni. Fino all’odio-di-sé, si fa presto a passare dal nemico esterno al nemico interno, se quello è forte. 
Il “Sud” nasce con l’unità. Molti elementi dello stereotipo già circolavano, ma l’unità ne fece uso sistematico e politico: il pregiudizio fu la sua politica. Non senza cinismo, anzi. I dati che Guerri elenca, seppure in breve, sono una storia inequivocabile – chiama la sua una “antistoria” ma di fatto fa una storia, senza inutili punte polemiche. Fu appropriata o altrimenti distrutta la ricchezza monetaria e industriale (manifatturiera, mineraria) Furono accantonati i garibaldini, eliminati i borbonici. Questi anche fisicamente: almeno seimila arresti seguirono l’annessione, con deportazioni, in Lombardia e in Piemonte – in una fortezza abbandonata a Fenestrelle, a duemila metri di altitudine. Le rivolte contro le tasse sui poveri e la leva militare iugulatoria furono affrontate - e irrobustite - con la militarizzazione: stato d’eccezione, esecuzioni sommarie, incendi, distruzioni, deportazioni. La corruzione s’impose in tutti gli ambiti, dalle forniture militari agli appalti pubblici, e privatizzati, alla manomorta. Nei plebisciti per l’unità ebbe parte attiva, mobilitata dai prefetti, la camorra – e non si esitò a proclamare più “sì” dei votanti.
Ancora nel 1855, l’Esposizione Universale di Parigi sanciva il Regno delle Due Sicilie il terzo paese per sviluppo industriale, dopo la Gran Bretagna e la Francia. Niente emigrazione. Novemila medici in attività. Riserve monetarie all’unità per 445 milioni di lire (una lira valeva 4,5 euro), contro i 27 del Piemonte (con Liguria e  Sardegna)- O i 195 del resto d’Italia, Piemonte compreso (ma 91 dei 195 milioni erano dello Stato pontificio).
I Borboni di Napoli erano legati alla parte vincente-perdente delle guerre napoleoniche, la Santa Alleanza dell’Austria-Ungheria e la Russia, e furono i primi a cadere sotto l’impulso rinnovato delle forze repubblicane e liberali. Ferdinando IV era stato salvato e protetto in Sicilia dagli inglesi, ma si volle reazionario poco dopo il ritorno a Napoli, e da allora il destino della sua dinastia fu segnato, come quello degli Asburgo. Manca questo aspetto nella ricostruzione di Guerri – latita in tutte le storie dell’unità – ma per il resto c’è tutto, un caso raso di onestà intellettuale.
Con l’unità il Sud è “Africa”, cioè una colonia. Un nemico, benché scodinzolante, da affrontare con disprezzo, e con libertà di bottino. Pieno di volenterosi, come avviene in ogni colonia: allora come oggi, tra i massimi spregiatori si trovavano le borghesie di regime del Sud: politicanti, affaristi (manomorta, appalti), camorristi. Fra i più convinti sostenitori della conquista come conquista  Guerri cita l’economista napoletano Antonio Scialoja – ma non era isolato – che a Cavour a Natale del 1860 Cavour argomenta “l’impossibilità di fondare un governo altrimenti che  sulla forza, almeno per un lungo tempo”. La legge Pica, che impose lo stato di guerra al Sud su pressione del capo del governo Minghetti, bolognese, fu opera di un solerte deputato abruzzese..
Il primo rapporto del generale Cialdini a Torino, il conquistatore di Gaeta, subito dopo la promulgazione dello stato d’eccezione, fa con orgoglio queste cifre: 8.968 fucilati, fra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7.112 prigionieri; 918 case e 6 paesi bruciati; 12 chiese saccheggiate; 2.905 famiglie perquisite; 13.629 deportati: 1.428 comuni in stato d’assedio. Tutto questo “soltanto nel Napoletano”.
Le cifre per la verità ballano. I giustiziati nella guerra civile o lotta a brigantaggio vanno dai cinquemila ai diecimila. Fino a 100 mila arriva il calcolo di chi ha perso comunque la vita, la casa, i campi, il lavoro, i risparmi. Ma Guerri ha indubitabile anche la testimonianza di Massimo D’Azeglio nell’agosto 1861, indirizzata a un amico e pubblicata sul giornale parigino “La Patrie”, in aggiunta al rapporto di Cialdini: “Ci vogliono, e pare che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti e non briganti, tutti non ne vogliono sapere… Di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. Dunque, deve essere corso qualche errore… A  chi volesse chiamar Tedeschi in Italia, credo che quegli Italiani che non li vogliono, hanno diritto di fare la guerra. Ma a Italiani che, rimanendo Italiani, non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibusate”.
Più specificamente, Guerri rianima i briganti, coi contributi di Pino Aprile e Franco Molfese. Di quest’ultimo soprattutto, l’unico storico che si sia applicato a ricostituire gli archivi della guerra civile postunitaria, dispersi, più spesso bruciati o sottratti - gli armadi Molfese ha trovato per lo più svuotati. L’inchiesta che il Parlamento svolse con la guerra civile in corso, del lombardo Antonio Mosca, un cavourriano, dunque di piena fiducia, relatore Giuseppe Massari di Bari altro liberale, è stata secretata e poi dispersa. Il barone Ricasoli, il capo del governo, giudicava del resto i briganti un’organizzazione terroristica del papa, di Pio IX..
Il ritratto di “Chiavone”, Luigi Alonzi, si legge come un romanzo d’avventure. Anche per i tanti volontari, molti variamente titolati, nobili, ufficiali, professori, che accorsero da ogni parte d’Europa al suo seguito. Lo stesso delle brigantesse, raccontate anche fotograficamente, starlette in posa con l’archibugio, giovani e proterve, capi militari capaci, spesso cattivissime. Le brigantesse Guerri disegna “sui giornali e le riviste del Nord”, e questo contribuisce molto al senso vero della guerra al brigantaggio. Il romanticismo del brigante meridionale era già stato celebrato da Berlioz in “Lélio”. Al Nord si fece di più, coi “pruriginosi resoconti sulla diabolica sessualità di queste messaline analfabete”, che nessuno in realtà conosceva. Di Maria Oliverio, di Casale Bruzio, che preferì farsi uccidere, Dumas avviò il romanzo, “Pietro Monaco, sua moglie Maria Oliverio e i loro complici”, abbandonandolo poi a metà, dopo sette capitoli. Filomena “Pennacchio” De Marco, che amava i cappellini, quando fu arrestata invece fu doppiamente crudele: denunciò i suoi compagni. Il cliché della donna del Sud naturalmente è da rivedere.
Commovente, per molti aspetti, è il ritratto di”Franceschiello”, o “Ciccillo”, l’ultimo re di Napoli, d grande dignità nella lunga serie di sconfitte, benché giovanissimo e inesperto. Un film, un serial, la storia della sua moglie tedesca, Maria Sofia, che gli sopravviverà sempre combattiva fino al fascismo solidamente impiantato.
Anche Borjes, il generale catalano fedele al papa, ne esce bene:  la sua esecuzioni fu esecrata in tutta Europa, ricorda Guerri, perfino dal rivoluzionario Victor Hugo. Borjes fu giustiziato sommariamente dalla pattuglia che lo incrociò, si disse, per impadronirsi del portafogli. Dopo Porta Pia iI generale Lamarmora ordinò che la salma fosse trasferita a Roma e tumulata nella Chiesa del Gesù, dopo esequie solenni.  
Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Oscar, pp. 297, ill. € 11,50

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