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giovedì 23 aprile 2020

Il Benvenuto Cellini dell’antropologia


L’islam siamo noi, tristemente. Già nel 1955: “L’islam che, nel Medio Oriente, fu l’inventore della tolleranza, perdona male ai non mussulmani di non abiurare alla loro fede a vantaggio della sua, perché essa ha su tutte le altre la superiorità schiacciante di rispettarle”. Una lettura vertiginosa dei mondi altri finisce con un saggio, breve ma esauriente, su come siamo: “Quando i cittadini del New England decisero un secolo fa di autorizzare l’immigrazione dalle regioni più arretrate d’Europa e dagli strati sociali più diseredati, e di lasciarsi sommergere da questa ondata, fecero e vinsero una scommessa la cui posta era altrettanto grave di quella che noi ci rifiutiamo di mettere in gioco”.
Un libro di viaggi ancora nuovo, cioè veritiero, dopo quasi settantanni. A dispetto di se stesso? Il futuro grande antropologo alla prima frase dice: “Odio i viaggi e gli esploratori” . Tantissimo tempo perduto, è la seconda. Per un libro di viaggi raccontati per quattrocento densissime pagine. Non senza qualche ragione, soprattutto quella che “oggi” (1954-55, quando il memoir fu scritto), il viaggio è “fatto” prima della partenza. E allora dov’è la diversità, la novità? Ma si dice per dire, l’autore non ha fatto che viaggiare.
Il libro del primo incarico universitario, a San Paolo del Brasile, dove il maestro di Lévi-Strauss alla Sorbona, George Dumas, aveva fatto aprire dai ricchi brasiliani una università, e vi svezzava i suoi discepoli. Lévi-Strauss vi arriva come professore di Sociologia. E vi diventa etnografo. Raccontando in dettaglio, con abbondanza di illustrazioni, le prime, faticose, lente, complicate, ricerche, fra i Natikwé, i Bororo del Mato Grosso, i Tupi-Kawahib – “che Montaigne ha incontrato a Rouen” – imparentati con i Tupi americani, il sertão, le città inventate, allora Goiania, prima di Brasilia, o Karachi. Irrispettose a volte: “L’Amazzonia, una Frontiera fallita”, ridotta a scolare gli alberi della gomma. Dettagliate come ogni buona ricerca etnologica – benché di molti reperti il giovane ricercatore deve dire a più riprese che sono fruibili a Roma, portate dall’etnologo Guido Boggiani, che le stesse zone aveva visitato nel 1892 e nel 1897, lasciando “di questi viaggi importanti documenti etnografici, una collezione che si trova a Roma, e un grazioso giornale di viaggio”. Ma è il libro di un scrittore, che si fa leggere dall’inizio alla fine, perfino nei minuziosi inventari etnici o folklorici. Pieno di bon mots e di illuminazioni.
Il tropico è triste: trasandato, presto fatiscente, immemore. Ma il giovane ricercatore sa farsene un tesoro. Essendo di curiosità insaziabile – quella del suo etnografo tipo: “Simile ai fuochi indigeni della brousse, accende terreni talora vergini, li feconda per tirarne in fretta qualche raccolto, e lascia dietro di sé un territorio devastato”. L’etnografo che lui diventerà dopo. Sempre con riserva, l’etnologo volendo (“non so se sia esatto in generale ma probabilmente è vero per molti di noi”) un disadattato:  “La difficoltà di adattamento all’ambiente sociale nel quale si è nati è il motivo che spinge a diventare etnologi”. 
La prima parte è un’autobiografia intellettuale. Con molte annotazioni fuori campo – Lévi-Strauss non era ancora convinto di fare l’etnografo. Anzi, dirà alla fine: “In etnologia sono un completo autodidatta: una prima rivelazione l’ho avuta per ragioni inconfessabili: smania d’evasione, desiderio di viaggiare”. Ma non a suo agio fuori della scienza, troppa faciloneria. Per cui il professorato resterà “il solo mezzo offerto agli adulti per permettergli di restare a scuola”. L’impegno politico invece è impossibile, è una contraddizione: “È guardare le cose dal di fuori, è un’altra maniera di restare disimpegnati”. D’altra parte, “il liberalismo moderato è l’arma ideologica abituale delle oligarchie per il potere personale”.
Soprattutto è ossessionato dalla filosofia, che evidentemente lo attraeva: troppe congetture. “Il significante non si rapportava più a un significato, non c’era referente”. Ridotta a arte meschina del calembour, delle omofonie e ambiguità, e dei colpi di scena ingegnosi, in realtà secondo schemi ripetitivi. Al meglio, “la filosofia non era ancilla scientiarum ma una sorta di contemplazione consolatoria che la coscienza fa di se stessa”. Ma più che altro un cicaleccio, attorno alla “riflessione decisiva che un pensatore, o la società che creò la sua leggenda, perseguì venticinque secoli fa, e alla quale la mia civiltà non poteva contribuire che confermandola” - “Ogni sforzo per comprendere distrugge l’oggetto al quale ci eravamo attaccati, a beneficio di uno sforzo che lo abolisce, a beneficio di un terzo, e così via di seguito, fino a che non accediamo all’unica presenza duratura, che è quella in cui svanisce la distinzione tra il senso e l’assenza di senso: la stessa da cui eravamo partiti”.
Un monumento al Brasile. Ancora oggi, che il Brasile si vuole industrializzato, fuori della “tristezza tropicale”, dell’antropologia. Qui è là, prima e dopo le ricerche in Brasile, molte annotazioni di viaggio. Sul mondo pulviscolare asiatico. Sulla città americana sempre simile, per la leggerezza, a un’esposizione universale diventata permanente - ma l’America, vista per la prima volta a Portorico nel 1933 o giù di lì, avrà sempre per Lévi-Strauss un’aria ispanica.
“L’apoteosi di Augusto”, il capitolo conclusivo, è la vita angusta, faticosa, poco produttiva, dell’etnologo al lavoro.Una vita più di macerie pratiche che di ricerche: la malinconia, e il dramma, dei pomeriggi “sopra l’amaca, dentro l’amaca, sotto la zanzariera spessa”, da togliere la luce e il respiro. “Critico a domicilio, e conformista fuori”, anzi reazionario: “Volentieri sovversivo tra i suoi e in ribellione contro gli usi tradizionali, l’etnografo appare rispettoso fino al conservatorismo quando la società che osserva è diversa dalla sua”.
Un viaggio contro il viaggio – da etnologo quasi controvoglia. Ma ben un viaggio ricco, di novità ancora oggi che nulla sembra più poter essere nuovo o ignoto: l’aneddotica riempie ogni pagina, insieme con una tela di fondo da robusto narratore. Con incursioni temerarie in varie direzioni, non solo nella filosofia e l’etnografia. Tra esse questa, alla fine del § “San Paolo”, che raffronta l’Europa del 1955 a quella di vent'anni prima, in molti modi profetica – la storia è come la fenice, si rigenera: “Pensando a che cos’era l’Europa, e a quello che è oggi, ho imparato, vedendo superare in pochi anni uno scarto intellettuale che si sarebbe creduto di parecchie generazioni, come scompaiono e come nascono le società; e che questi sconvolgimenti della storia che sembrano, nei libri, risultare dal gioco di forze anonime che agiscono nel cuore delle tenebre, possono anche, nel lampo di un istante, compiersi per la risoluzione virile d’un pugno di ragazzi ben dotati”.
Con una precisa visione infine, non artificiosa come sembra, dell’europeo etnologo: “L’Europa offre forme precise sotto una luce diffusa. Qui (nel tropico, n.d.r.), il ruolo, per noi tradizionale, del cielo e della terra si rovescia. Al di sopra della scia lattiginosa del campo, le nubi disegnano le più stravaganti costruzioni.  Il cielo è la regione delle forme e dei volumi: la terra conserva la morbidezza dei primi tempi”. E con la curiosa ripetuta professione di amore, anzi un’identificazione, con Benvenuto Cellini, non certo per la litigiosità, forse per la versatilità, manuale, pratica.
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, pp. 379, ill. € 24

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