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martedì 19 ottobre 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (471)

Giuseppe Leuzzi
“Due settimane fa sono venuti in 400 al Cimitero Monumentale di Milano”, ricorda Giacomo Poretti di Aldo, Giovani e Giacomo, con Elvira Serra sul “Corriere della sera” a proposito dell’ape-teatro,  teatro ambulante e poco “teatrale”: “C’erano 5 fiati, io declamavo una cosa su sant’Ambrogio e sant’Agostino, un tedesco e un terrone africano”. Beh, è vero: il milanese si sposta anche al Cimitero, per “una cosa” tra due santi. Ed è pure vero che il tedesco e il terrone convivevano (insomma, si vedevano) a Milano.
 
“C’è una probabilità di mortalità infantile del 47 per cento superiore al Sud rispetto al Nord-Est dell’Italia”, Giorgio Parisi, Nobel per la Fisica. Una probabilità, cioè la proiezione del dato odierno in futuro. Cosa di cui il Sud non si è accorto? La sanità non è regionale?
 
Mafia. Un’altra etimologia è da aggiungere alle tante avanzate? Dal nome dell’isola di Mafia, in Tanzania, che deriva dall’arabo “morphyeeh”, gruppo.
 
Il risveglio del ghiro
All’improvviso un paese familiare, una comunità ignara, si scopre luogo di vertici di mafia, con banchetti di ghiri (banchetti di ghiri?), all’ombra della marijuana. Un mese o due fa tre individui sono stati scoperti coltivare marijuana su un terreno comunale, vecchio uso civico, 730 piante sono state censite. La giustizia segue il suo corso, e dopo un mese, o due, in casa degli stessi, o di uno dei tre, 235 ghiri sono rinvenuti congelati, in una cinquantina di sacchetti, più qualcuno vivo in gabbia. Di che bollare la comunità sui siti mondiali, le corrispondenze locali, i commenti affranti, con la teoria che i ghiri servono ai banchetti dei mafiosi, alle “mangiate” come si sognano a Reggio Calabria: “Ghiri, ‘ndrangheta e tradizione”, “la caccia ai ghiri e il potere della ‘ndrangheta”, “‘ndrangheta e caccia ai ghiri, il significato di un rito ancestrale”, “sequestrati ghiri congelati, piatto preferito dei boss della ‘ndrangheta”, ”è il cibo preferito dei boss di ‘ndrangheta”… L’enumerazione è inutile, videomaker, cronisti, notisti, ritualisti ripetono a pappagallo l’imbeccata. In due versioni: il banchetto era dei capimafia, oppure delle cosche di mafia quando devono siglare un patto scellerato, o una pace dopo le faide – “i ghiri sono considerati segni di potere”. Con scandalo naturalmente degli animalisti. Ma facendo un torto agli uomini di potere ‘ndranghetisti, considerati scemi.
Il ghiro è simpatico, ed è specie protetta. In Calabria è anche cibo apprezzato, molto. Lo era prima, quando la caccia era libera, e lo è rimasto anche ora che non è più cacciabile. Si capisce che dei bracconieri ne tenessero grandi quantità in freezer (ma 200? anche 100 è difficile da credere, non ce ne sono molti in giro, e la cattura è complicata). Ma anche questa non è una novità, la novità è solo che la pratica si facesse nella loro comunità, che è nell’Aspromonte. E soprattutto quello che si fa sapere ai siti mondiali, ai corrispondenti e alle gazzette locali: che il ghiro è cibo di mafia. O non sarà il ghiro matière de Calabre, come gli inchini delle Madonne ai mafiosi? Una saga locale alla maniera dei Reali di Francia. Che magari sostituisce la quotidiana “dichiarazione di esistenza” dei Cacciatori di Calabria, l’unità speciale eliportata a caccia delle sue ore di volo mensili? O di un giudice di Reggio a beneficio dei giornalisti, sempre utili – una dichiarazione è sempre meglio che lavorare? I mafiosi considerando stupidi o folklorici. La verità della cosa è che l’animaletto si vende a 5 euro l’unità. Una cifra da Christie’s.
Questo si sa. Nella celebrazione post-freezer un sito lo ricorda, indirettamente: “L’uso di cibarsene, bollito nel sugo o arrosto, risale ai legionari romani, che si portavano dietro contenitori in cui allevavano i roditori per avere a disposizione cibo per i momenti di bisogno”. I mafiosi elevando a antichi romani?
Il ghiro è cibo pregiato in Calabria, dove ogni esemplare si vende a un prezzo medio che la Lav, lega anti-vivisezione, documenta in cinque euro per esemplare. La caccia ne è diffusa, a fini commerciali, specialmente nel Cosentino e nelle Serre. Nel Cosentino nelle regioni montuose, Sila (San Giovanni in Fiore, Rossano, Castelsilano) e Pollino (Orsomarso). Nelle Serre in una vasta zona, tra le province di Vibo, Catanzaro e Reggio. La caccia, dacché il ghiro è diventato specie protetta, è risultata ai controlli specialmente diffusa a Guardavalle, Santa Cristina dello Ionio, Nardodipace, Serra San Bruno, Stilo e Bivongi. Nelle stime della Lav, nel solo territorio di Guardavalle vengono catturati 20 mila ghiri l'anno. Che sembra un numero norme, ma chissà.
 
L’America ne sa di più
Della Calabria. Al secondo o terzo film, Jonas Carpignano, sceneggiatore-regista giovane di New York, con produzione, direzione della fotografia, montaggio e colonna sonora  americani, sa raccontare in “A Chiara” la Calabria come nessuno dei registi italiani, che pure vi si cimentano ultimamente numerosi. Dall’eloquio, una dizione accuratissima dei modi di dire, ai comportamenti, a partire dagli sguardi, con l’ironia, la bontà, il rispetto, lo scherzo,  il malinconico. Non maca il delitto – il furto, la droga: il racconto è dell’amore filiale, di una figlia che scopre nel padre amato un trafficante di droga. Ma niente western, niente gangster movie, come il cinema italiano vuole – anche quello che si ambienta per qualche scena in Calabria per i fondi della Film Commission regionale. Storia e, soprattutto, caratteri Carpignano crea che sembrano solo naturali. Corpi e visi non omogeneizzati, alla fine sempre belli della loro verità, modi di essere, di parlare (quanti troncamenti, polisemici ma non ambighi), di guardare, di ridere, sorridere, di abbracciarsi, litigare. Anche nell’omogeneizzazione, dell’abbigliamento, le barbe, i tatuaggi, il fumo elettronico, le canzoni, le cuffie, comuni a questi speciali ragazzi come a tutti i loro coetanei. Nonché un forte, intenso, racconto, un lavoro filologico, etnologico di prim’ordine, sottotraccia come dev’essere, e fedele.
Tutto questo naturalmente è merito dell’autore, della sua capacità di raccontare: Carpignano anche delle buone cose (buoni sentimenti,) sa fare un dramma, sa farle rivivere. La Calabria non ha merito. Ma è in Calabria, tra Rosarno e Gioia Tauro, che questo regista newyorchese, di famiglia altoborghese lombarda, che ha scelto e sa raccontare. Dire “A Chiara” un capolavoro non  è eccessivo, Un capolavoro questo, come prima “A Ciambra”, il quartiere sul Petrace ora degradato delle case popolari costruite negli anni 1950 per sedentarizzare gli zingari a Gioia Tauro (come Arghillà, altrettanto degradato, a Reggio, e a Catanzaro quasi in centro, dove invece mantiene un qualche decoro): un Kusturica girato con pochi mezzi ma altrettanto memorabile. E prima ancora “Mediterranea”, di un Carpignano nel 2014 trentenne, sui due esiti dell’immigrazione, girato nella bidonville di Rosarno-San Ferdinando: un fratello accetta l’integrazione, per quanto povera, un  fratello la rifiuta. Ma è comunque un racconto onesto, oltre che di sorprendente attrazione, a fronte dello scontato fondale di brutti, sporchi e cattivi, da western senza luce, che fanno l’immagine di tutto ciò che si lega alla Calabria.  
Un film fatto recitare alle famiglie Rotolo, Amato e Furno. Con una buona dose quindi di rom integrati, anche qui. E a un africano immigrato, lo stesso attore di “Mediterranea”, al lavoro, vigile e distaccato, come unico sensato.
Con un omaggio, pur senza inalberare buonismi, anzi perplesso, al programma “Liberi di scegliere”, dell’avvocatessa docente G.M. (Giuseppina Maria) Patrizia Surace, reggina, una lunga carriera di studi, consulenze e applicazioni per indirizzare la pena (carcere) e la sofferenza (familiari di delinquenti) a fini pedagogici, di formazione e indirizzo. Un capolavoro civile.  
 
Aspromonte
Garibaldi ferito ai Piani d’Aspromonte fu un evento mondiale - Cialdini lo aveva anche arrestato. Commosse e mobilitò l’opinione pubblica dappertutto in Europa, e perfino in America – dove Lincoln aveva pensato a Garibaldi per la guerra di secessione. In Inghilterra furono raccolte in pochi giorni per i feriti dell’Aspromonte ben quarantamila lire. A Hyde Park una manifestazione di protesta raccolse quarantamila persone. Da Lipsia una corona in forma di allora in oro fu offerta a Garibaldi. Da Magonza mandarono una cassetta di vini pregiati (ma Garibaldi era astemio…) Lettere e attestazioni di conforto giunsero dalla Svezia, dalla Russia, dalla Francia. Lincoln rinnovò a Garibaldi l’offerta di un alto comando nell’esercito nordista.
 
Arrivando ai Piani d’Aspromonte dopo una marcia di due giorni da Reggio, estenuati dalla calura di agosto su per le balze allora desertiche della Montagna, i giovanissimi garibaldini volontari trovarono finalmente rifugio nelle vaste pinete. E soprattutto di che mangiare: le patate “arrostite”. Che si mangiano oggi come allora, cotte, con la buccia, nella cenere.  Ricorderà Garibaldi a distanza di tempi i viveri “che la popolazione dei paesi circostanti ci offriva spontaneamente”, Sant’Eufemia, Solano, Cosoleto, e le patate: “Un campo di patate sfamò i primi giunti che avevano avuto pure la previdenza di portare seco alcune fascine secche, atte ad arrostire le patate, ciò che fu eseguito in un momento. Per parte mia mangiai quelle patate arrostite deliziosamente”-
 
Le trote fario, argentee col punto d’oro sulla guancia, illuminano i torrenti. Antonio si fa un vanto di pescarle con una semplice esca in punta a un bastone – per poi rimetterle in acqua. Antonio è camminatore e torrentista. Specialista delle acque interne – probabilmente il solo che ne sa qualcosa nel Parco, hanno bisogno di lui per discuterne in convegni e assemblee. Ma ne parla a memoria, ora non gira più. Troppe volte ha visto la calce viva nelle acque – con cui le Guardie Forestali si fanno la cena.
 
Concetta, la serva di casa Adorno nell’“Ultima provincia”, il racconto di debutto (1962) e il capolavoro di “Luisa Adorno”, ha “viso terreo, largo ed adunco ad un tempo, involgarito da capelli per natura troppo neri”. Probabile: è “quarantenne, non era avvenente”, e faceva la serva, devota, lontana da casa (seguiva Prefetto e Prefettessa nelle varie sedi). Ma ha anche “la rigidezza del corpo, piccolo, tutto d’un pezzo, di montanara calabrese”. Quante montanare calabresi avrà conosciute la simpatica scrittrice pisana Mila Curradi, maritata “Adorno”, che il 2 agosto è morta centenaria, al suo esordio?
 
Rumia è un laghetto, nel comune di San Roberto, ma vicino a Gambarie. Di etimologia incerta, nulla comunque a che vedere col quasi omonimo Urmia, oggi in Iran, nella parte settentrionale alla frontiera con la Turchia, vecchia patria degli Ittiti, attorno al quale si sono consumate molte battaglie russe per l’espansione verso Sud. Un po’ più grande di una pozza a fronte di un quasi mare. Se non che si respira la stessa aria. Scherzi della memoria? No, l’altezza sul livello del mare è la stessa, 1.270 m.
 
“Emilio Santillo fumava sigari avana, enormi e profumati” è l’incipit di un fulminante racconto di Franco Calabro trent’anni fa sulla “Gazzetta del Sud”, per i quarant’anni del quotidiano – “Su quella montagna dove abitano i diavoli” è il titolo di una serie di suoi racconti in tema. “Sulla sua scrivania teneva una pistola col calcio di madreperla con la quale amava gingillarsi, mentre intratteneva – la cosa era ormai un rito – l’inviato del giornale del Nord spedito di corsa «laggiù» per sentire cosa veramente questo gentiluomo campano (per noi tutti era «lo sceriffo») avesse scoperto dopo l’Appalachin della ‘ndrangheta, dopo la sorpresa della radura di Montalto, uno spiazzo tra enormi faggi nel quale, la prima domenica d’ottobre del 1969, i notabili della mafia della provincia di Reggio Calabria stavano tenendo una riunione.
I nomi delle persone incappucciate?
«Ve li daremo ma non adesso. Aspettate e vedrete».
Così il questore Santillo rassicurava gli inviati, offrendo sigari e whisky, centellinando a sua volta le notizie, una al giorno. «Così – diceva – li teniamo qui».
Per anni la favola degli incappucciati di Montalto, degli insospettabili, grosse personalità del mondo politico, si diceva, fatte fuggire nel momento dell’irruzione della polizia, è stata ripetuta, condita in tutte le salse. Siamo stati in pochi («gli altri vanno via, voi restate – diceva Santillo – perciò state attenti!») a saperlo dall’inizio: gli incappucciati di Montalto non sono mai esistiti”.
Erano “la brillante e un po’ cinica trovata di Santillo”, concludeva Franco, “il quale, così facendo, era riuscito a far tenere i riflettori accesi su di lui per mesi, anni addirittura”.
“Fuggire nel momento dell’irruzione della polizia” al Montalto è impossibile: è una radura aperta e scoperta, e non vi si arriva di sorpresa. E seppure gli incappucciati fossero stati sordi, non avevano dove scappare, non ci sono e non c’erano - al tempo degli incappucciati avevamo un’esperienza quindicennale della Montagna - rifugi. Ma tutto si può credere.

leuzzi@antiit.eu

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