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sabato 16 luglio 2022

Pavese era un altro

A “Hoffman”-(Leone) Ginzburg, “Masino”-Pavese fa dire una cosa che lo segna: “Tu non sei di quegli idioti che si cercano, ma colle tue ignoranze riesci a vivere e a comprendere”. E di sé ribatte una cosa altrettanto importante: “Ho un difetto soltanto. Che non capirò mai la politica”, spiegando ben in anticipo gli smarrimenti del “Diario segreto”. Sa anche il suo problema con le donne – la cosa si prolunga per una pagina, ma il succo è questo: “Un grand’orrore di  qualunque legame l’aveva fin’allora distinto”.

Le prime poesie di Pavese, dai quindici anni ai ventidue, 1923-1930, e la raccolta di divagazioni torinesi “Ciau Masino”, 1932, una raccolta di racconti in realtà, anzi un romanzo, primo tentativo di narrativa, inedito. Un omaggio ai lettori dell’“Unità” il 12 settembre 1990, per i quarant’anni della morte, mai più ristampato, che invece ribalta tutto Pavese, semplicemente: la persona, e anche l’opera. Nell’introduzione, anonima e breve, ma straordinariamente viva e vera – sebbene il linguaggio sia censurato dalla vecchia abitudine di omettere le parole scurrili (ma una è rimasta, di un’opera che gli “bandava “ dentro, francesismo, o piemontesismo). E nella semplice composizione del volume.

Le poche note del prefatore anonimo sul legame paterno col professor Augusto Monti al liceo, su Tina Pizzardo, “l’insegnante di matematica dal carattere duro e volitivo, politicamente più che impegnata, iscritta al partito comunista clandestino”, amore infelice di una vita (lei lo usa come cassetta delle lettere), e sul suicidio per amore al liceo del coetaneo Elio Baraldi, nonché sulle cotte in serie per le ballerine del varietà scolpiscono un altro Pavese. Quando Baraldi si spara una rivoltellata “Pavese medita di imitare l’amico, poi si limita a scaricare la rivoltella contro l’albero a ridosso del quale si è ammazzato Baraldi. E scrive una serie di endecasillabi sciolti che invia subito all’amico Sturani”. Una psicologia non senza ombre ma forte, e diretta, non piagnona, lagnosa.

Le poesiole, composite, sono anch’esse illuminanti. C’è naturalmente Leopardi, filtrato da Pascoli. Ma anche la Vispa Teresa, in ottonari svelti. E il Berni. Con un “Blues delle cicche” di cui Pavese andrà sempre orgoglioso, ripreso in “Ciau Masino”. Che si adorna anche di un altro paio di poemetti in prosa, “Il vino triste”, “La maestrina”, “Antenati”, e un secondo blues di cui Pavese fu orgoglioso, “Il Blues dei blues”: le parole di una canzone jazz affidata però a “’n Tripôlìn”, un musicista “Napoli”, tutto intriso di canto melodico, e quindi abortita – il primo tentativo di “canzone d’autore”. Il tutto condito dal mistilinguismo. Il dialetto (piemontese? torinese?) innerva “Ciau Masino”, ma anche, nella costruzione, le prime poesie. Il poemetto a Titano (“All’alta rupe sul mare\ ancora è inchiodato il Titano”), 1928, viene anche in inglese, fluido.

È strano come di questo personaggio così vispo si sia fatto una arcigno professore, scontento della vita. “L’amore darà sempre guai a Pavese”, come ben predice l’anonimo acuto prefatore – quando a quindici anni prende la pleurite aspettando sotto la pioggia alla fine dello spettacolo una ballerina del varietà che invece è già uscita da un’altra porta con “un corteggiatore più fortunato”. Senza un’educazione agli affetti, da quasi orfano, cresciuto fuori casa – torinese nato per caso a Santo Stefano Balbo e lì abbandonato. Iniziato anche in queste cose dal professor Monti al liceo, che agli allievi consigliava il bordello. Un po’ fissato, se si vuole, ma come allora usava, sui toni della goliardia.  

“Ciau Masino” è un romanzo, scritto tra l’ottobre del 1931 e il febbraio del 1932, su due linee narrative, la vita dura, ignorante, perdente dell’operaio, e quella saputa e svagata degli intellettuali figli di famiglia, dei giovani studenti. “Tommaso Ferrero, detto Masino”, un altro Pavese, è protagonista di sette racconti (prodromi de “La bella estate” e altra narrazioni più fortunate di Pavese), Masin Delmastro è protagonista degli alti sette (tornerà con altro nome in “Paesi tuoi”). Masino è un giovane meccanico che le sbaglia tutte, da collaudatore della Fiat volendo cercare fortuna con le scuole serali, poi da torinese finito a Santo Stefano Belbo, e così via, fino all’abbrutimento, l’omicidio, il carcere. Masin passeggia con gli amici, chiacchiera, va in barca, flirta. E ha un dibattito insolito sul “francescanesimo” e sul Cristo di san Paolo, che attribuisce a Hoffman, “l’ebreo”, il più dotato degli amici – un dibattito pre Francesco-Bergoglio (e pre Pasolini).

Un debutto bocciato, non si sa da chi (dall’editore Frassinelli? sicuramente dall’amico “paterno” Leone Ginzburg), che però non dissuase l’anglista già notorio Pavese dalla scrittura, come energicamente assicura all’amico di sempre Mario Sturani, in due lettere allegate alla compilazione. “Il vivaio delle ambizioni letterarie di Pavese”, lo dice a ragione il prefatore, “un testo d’inaspettata freschezza  e di sorprendente allegria”.

Da ultimo il sogno: l’America. Che comincia da Genova, a un Sailor’s Inn. Dove però Masino-Pavese comincia con una battuta che oggi gli impedirebbe il visto, di un compagno di bevute, “un negro”, rilevando “una mano nuda, da scimmia”.

Pavese giovane, Einaudi, pp. 170 s.i.p.


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