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martedì 13 febbraio 2024

Letture - 543

letteruatore


Arthur Conan Doyle
– Scrittore da sempre: a 14 anni fondò una sua propria rivista, “The Stonyhurst Magazine”. Con propensioni presto definite: il primo racconto pubblicato, a vent’anni, s’intitola “Il mistero di Sasassa Valley”.
 
Camilleri
– Riteneva “suo” genere il romanzo storico, mentre scriveva tanto “Montalbano”. Che però considerava – così diceva – con insofferenza e perfino con irritazione. Tale e quale Conan Doyle con Sherlock Holmes e i racconti e romanzi storici. Le geremiadi dell’uno e dell’altro, pro romanzo storico e contro le loro creature sembrano però rispondere a un cliché – comprensibile in entrambi, l’uno idolatrava Walter Scott, l’altro Manzoni. Salvo compiacersi, nei momenti di disattenzione?. delle loro creature, Conan Doyle scrivendo alla madre, Camilleri specialmente nelle presentazioni televisive dei film di Carlo Degli Esposti e Alberto Sironi.
 
Dante
– La “Divina Commedia” all’opera era inevitabile, e si riprende ora a Roma, al teatro Brancaccio, “La Divina Commedia Opera Musical”. Libretto di Gianmarco Pagano e Andrea Ortis. Una composizione di Marco Frisina, il massimo compositore contemporaneo di musica sacra. Andata in scena nel 2007, e poi sempre ripresa, ogni anno, dal 2018. In spazi fuori dai teatri classici dell’opera. Esplora il viaggio di Dante come il viaggio dell’amore. Non escludendo l’Inferno. Si passa per Caronte, Ugolino, Francesca naturalmente, Pier delle Vigne, Ulisse, prima di giungere a Pia naturalmente, Guinizelli, Manfredi, Arnaut Daniel, Matelda, e poi Beatrice, Piccarda, san Tommaso, san Bernardo. Un “musical”, quindi con molte coreografie, molto ritmo-movimento.
 
Frammenti
– “Antonio Gramsci e Walter Benjamin devono non poca della loro fortuna internazionale alle forme provvisorie in cui ci sono giunti molti dei loro scritti”, Gabriele Pedullà, “Il Sole 24 Ore Domenica” 4 febbraio – “centinaia o migliaia di pagine di appunti per una o più opere da scrivere, densi di intuizioni spesso geniali ma non verificate e non sviluppate”.
 
Gattopardo – Lo storico del cinema Alberto Anile, ricordando sul “Robinson” il film che del “Gattopardo” fece Visconti, e che da allora fa testo per il romanzo, pur tradendolo radicalmente, elenca una serie impensabile di stroncature del romanzo all’uscita, come se già fosse il film dei “gelati squagliati” di Visconti, della nobiltà decrepita: “Piuttosto vecchiotto e non sufficientemente equilibrato” (Vittorni),”raffinato qualunquismo” (Sciascia), “senso generale di noia” (Dal Sasso – Severino?), “deficienza ideologica” (Alicata), “un Gattomorto, sia detto senza ironia” (Falqui), “un libro da bancarella” (Contini), “dannoso in quanto è servito alla restaurazione puristica” (Pasolini), “classico minore” (Moravia),”un libro mediocre, di secondo piano” (Asor Rosa).
 
Gesti – Il linguaggio dei gesti, venuto alla ribalta in America per l’uso che ne ha fatto in un match  un giocatore italoamericano di football molto popolare, Tommy De Vito – le dita di una mano unite, “a caciofo”, agitate per significare “ma che dici?”) – Ian Fleming, inviato speciale del “Sunday Timnes” nel 1960 a Napoli,  trova “oscuramente legato alla virilità” – la corrispondenza è ora riproposta nella riedizione di “Thrilling Cities”.
La “virilità” è, era, si può dire con altrettanta sicumera, il tormento degli scrittori inglesi.
 
Knausgård – Lo scrittore norvegese concorrente di Jon Fosse, il Nobel norvegese del 2023,  fluviale quanto lui, fece scalpore dieci anni fa al completamento di un romanzo in molti volumi, almeno sei, migliaia di pagine, che intitolava “Min Kamp”, la mia lotta, tipo Hitler, sulle pappe da bambini – così diceva la pubblicità - da lui preparate, e sui pannolini da lui cambiati. Forse per invogliare le mamme – se i lettori di romanzi sono, come si dice, soprattutto lettrici. Anche perché, testimoniava Barbara Stefanelli su “7”, il settimanale del “Corriere della sera”, si presentava “bello, norvegese, classe 1968, anno fatale, alto, capelli lunghi biondi e brizzolati insieme”. Un principe azzurro in congedo parentale.
 
Morante – Una bambina, capricciosa, nel ritratto che Dacia Maraini le ha dedicato sul “Corriere della sera” domenica 4 febbraio. Di “infantile e fantasiosa crudeltà”. Un amore vantando per un “un ragazzo bello, tossicodipendente e omosessuale”, che non la degnava, anzi non la guardava nemmeno (“oggi penso che il segreto del suo amore potesse venire da una lontana sognata discendenza provenzale”….). Un ritratto scritto in occasione dell’uscita su Rai 1 della miniserie tratta da “La storia” – che i tanti attori bravissimi e un montaggio rapido non riescono a liberare dal profuso bozzettismo.
 
Novecento – Quello letterario va riscritto, si opinava quindici anni fa su questo stesso sito. Prendendo spunto da una battuta di Cesare Cases per i suoi ottant’anni, in cui stigmatizzava sorridendo il criterio dominante della “fedeltà politica”, al Pci: stare nel partito Comunista “rappresentava una garanzia di potere, sopratutto intellettuale”.
Una fedeltà che “si nutriva di ostracismi”, si commentava. Citandone alcuni: Corrado Alvaro, Dino Buzzati, Mario Soldati, Salvatore Satta, Guido Morselli, Aldo Palazzeschi, Primo Levi, uno dei capisaldi del secondo Novecento, Giovanni Arpino, Carlo Cassola, che ne soffrì molto, Vitaliano Brancati, Paolo Monelli, Guido Piovene, Ercole Patti, Ennio Flaiano, Tomasi di Lampedusa, perfino Landolfi, e lo stesso Arbasino. “Poche le persone libere e non censurate”, si aggiungeva: “Debenedetti (che però non poté avere la cattedra, e fu precario per una vita), Contini (che però ha fatto tanti danni, dal Dante pietroso a Pasolini sopravvalutato)”.
Non c’erano, nell’ortodossia e fuori, le scrittrici. Deledda, premio Nobel e tutte le altre, Serao, Aleramo, Guglielminetti, Antonia Pozzi. E più nel secondo Novecento: Ortese su tutte, e Natalia Ginzburg, Masino, De Cespedes, Manzini, anche Anna Banti. Mentre si ridimensiona Elsa Morante. E Dacia Maraini, che non esce dall’ombra - il femminismo non basta.
 
Testori – Sempre rimosso, malgrado le recenti celebrazioni? Un incredibile scivolone lo cancella dall’intervista di Sandro Luporini, il cervello delle canzoni di Gaber, sul “Venerdì di Repubblica” – Luporini è 94nne, ma lo svarione è sfuggito sia a Riccardo Staglianò, che non è l’ultimo arrivato, l’intervistatore, sia alla redazione, che ha riletto e editato il testo. Luporini parla di Céline, “orribile persona” ma suo “autore di riferimento”, e poi continua: “Antonio Tabucchi (sic!), di cui ho ammirato Il ponte della Ghisolfa, era il suo corrispettivo moderno, con la stessa attenzione per gli ultimi”.
Oppure è a Tabucchi che Luporini si riferisce – la frase successiva è su Pessoa e Il libro dell’Inquietudne – e sbagliata è la citazione Il ponte della Ghisolfa? Ma Tabucchi non c’entra con Céliene, né con gli “ultimi”.
 
Volponi –Si recupera, si riedita, si ripropone per il centenario con l’immagine di una autore svelto, disimpegnato, poliedrico, sempre giovanile. Ma l’immagine perdura di un altro Volponi, anti-industrialista ma affannato, così descritto nel romanzo di Astolfo in via di pubblicazione “La morte è giovane”, come visto a Urbino nel 1974, in occasione di un megaconvegno organizzato dall’Eni per lanciare una politica anti-inquinamento anche in Italia – in due passi de “La morte è giovane”: “Curioso s’aggira Volponi, industrialista deluso. Che mette “gli Agnelli sotto processo”, sul Corriere. Ora che gli Agnelli non sono più padroni del giornale. Volponi traccia la storia della “famosa famiglia di Torino”, e dice: “Agnelli vuole solo buone maniere, buone notizie e divertirsi. Ascolta, capisce, rimuove, sorride e parte dopo dieci minuti”, le cose che ha scritto Scalfari nel celebre “Avvocato di panna montata”…...
“L’Avvocato Agnelli fa passerella, col figlio Edoardo e il nipote Giovannino.
Volponi immemore li precede in atto di cicerone, il testone agitando e le mani, gli occhi cerchiati, il lutto al risvolto, lucido il nodo della cravatta nera, allentato sul bottone, la camicia bianca sdrucita. Ha scritto il romanzo dell’Italia frammentata di Cattaneo e Pisacane, che intitola Il sipario ducale, spiega all’Avvocato. Che non smette l’occhio vispo, insieme hanno appena celebrato il centenario di Porta Pia e l’unità, e brunito, asciutto, claudicante, interloquisce senza affettazione. Ha rischiato di avere patrigno e mentore a quindici anni Malaparte, non fosse stato per il nonno, che saggio spiegò l’errore alla madre Virginia, inesausta malgrado i sette figli, non teme Volponi. I due cugini, ricci, smilzi, in maglietta, si divertono alle loro cose. I ruoli saranno altri, ma così appaiono: sterile l’impegno, impegnata l’aristocrazia. L’Avvocato è venuto per il presidente Leone, e i Trecentisti. Volponi ha la passione del Seicento, e la tentazione di Christie’s, a prezzi miliardari, che dice “una vertigine”. Il “poeta poetico” di Pasolini, che se ne fa maestro benché coetaneo. Ha la sindrome dell’Avvocato, che, per ironia o distrazione, si adegua al ritratto ostile. Ma poi che gusti può avere l’intellettuale se non quelli del principe, magari a debito, si è intellettuali per questo, per uscire dal fango”.


letterautore@antiit.eu

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