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domenica 20 febbraio 2011

Intellettuali, ancora un sforzo

L’attacco richiama Epimenide, il cretese bugiardo che diceva bugiardi tutti i cretesi. Non può essere altrimenti dell’intellettuale quando parla degli intellettuali – l’intellettuale andrebbe definito dal non intellettuale, un metalmeccanico, un droghiere, il contadino se ce ne fosse ancora, e questo non è possibile: l’intellettuale è metro di tutte le cose. Ma questo è il bello (il brutto) dell’intellettuale, di essere autoreferente: lui può parlare per gli altri, gli altri non possono parlare per lui – non ne hanno la funzione, il vocabolario, i trucchi.
In questa raccolta di testi brevi eterogenei, degli ultimi dieci anni, Berardinelli si pone il problema, e non lo risolve. Gli intellettuali, non dicendo “io”, non circostanziano, non relativizzano. Assolutizzano – “Se non dicono «io» è per nascondere l’enormità del loro Io immaginario” (p 15). Ed è il lavoro intellettuale Beruf (Max Weber), professione, oppure arte (C.Wright Mills)? A Berardinelli non interessa. Il problema è sempre: è meglio essere un buon misantropo, al modo dell’Alceste di Molière, oppure un attivista, al modo di Diogene quando il Macedone è alla porte – ce n’è sempre uno?
L’intellettuale di Berardinelli è essenzialmente un critico letterario. Militante oppure no - Berardinelli distingue, mentre sono la stessa cosa: la disattenzione è generale dei critici, incapaci ormai più di leggere, perché ogni curiosità è spenta, o è spento ogni motivo di curiosità, che è la stessa cosa (per la caduta del Muro, delle ideologie?) In realtà è di più, ed è da questo di più che deriva la sua insoddisfazione. Con altro linguaggio è la élite, o classe dirigente – lo stesso Berardinelli ne traccia l’anima del misantropo, che intende non uno spregiatore del genere umano, ma uno che se ne difende (la distinzione è tra guerra difensiva, sempre giusta, e guerra d’attacco, moralmente dubbia). . Il linguaggio è stato ridotto a propaganda. Una camicia di forza. Ma di essa sono ora vittime i nominalisti che l’hanno costruita (“l’Unità”, e collaterali, Umberto Eco, “Micromega”…). Che si salvano costruendosi furbi modeste realtà: i giochi di parole, l’osteria del tempo che fu (o la cucina sintetica dei cuochi di Barcellona), il casale in Toscana, l’Inter di Moratti tutte stelle, il comico Albanese. Questa élite è quella di Artemidoro nel libro dei sogni, 36: “È impossibile non ci avenga quello, che il Re ha sognato. Se lo sogna anche il popolo minuto non diremo che ha mentito, ma che il sogno era falso”.
Scorrendo la raccolta negli intervalli del festival di Sanremo, così mostruosamente incomprensibile (non divertente, non spettacolare, non musicale, non sportivo, anzi senza ritmo, perfino senza cuore se non quello del presentatore che deve fare ascolto, sconnesso, l’atmosfera è solo gelida – o è giusto un monumento, ogni anno, a Benigni? un gigante), uno si chiede: di cosa stiamo parlando? Oppure pensando al grande mondo fuori, come si fa e ci fa. Si rivede allora la penultima polemica sugli intellettuali, al tempo del terrorismo. Che non ci ha sopraffatti ma ha scontato una costruzione secolare, la costruzione dell’intellettuale – che non è finita: le librerie Feltrinelli, pure così ordinate, non hanno uno scaffale terrorismo, ne hanno uno lotta armata. E si dovrebbe dire, non si dice mai abbastanza: cos’è, cos’è stato, l’intellettuale bello-e-buono, quello dell’illuminismo, l’intellettuale per eccellenza, nella Rivoluzione del 1789, che pure ha provocato, o così ritiene? Non un Battista, al più un distruttore, spesso stolido, alla Héraut de Séchelles, talvolta tragico, alla Condorcet.
L’intellettuale, di professione o di gusto che sia, sarà al meglio il dilettante di Stendhal. Un professore, brillante, coscienzioso, un ingegnere, un giudice, di un buon giudice c’è sempre carestia, dall’animo sgombro. Correndo i rischi e prendendosene la responsabilità. Il problema è peraltro dell’intellettuale made in Italy, già in Francia è diverso. Altrove, si sa, non c’è, nemmeno più in Russia, una volta caduto il centralismo democratico, con le sovrastrutture e le egemonie – che invece perdurano in Italia.
Berardinelli non c’era nello speciale con cui “Alfabeta” ha lanciato a giugno la sua resurrezione ed è un peccato, si sarebbe divertito. Un suo intervento sul “Corriere della sera” del 15 luglio, che qui purtroppo manca, chiariva i cosiddetti termini del problema: “Berlusconi è andato al potere in un Paese intossicato da decenni di cattiva politica, di immobilismi politici, di ideologizzazioni politiche forsennate, di politicizzazione coattiva di tutti gli ambiti di vita”. E non è finita, l’Italia è ancora traumatizzata dopo trent’anni, “dopo la fine della Guerra fredda, dopo la crisi autodistruttiva, fra un compromesso storico immaginario e un terrorismo reale, che ha demolito la sinistra e le sue tradizioni”. Per chi è fuori dalla categoria non c’è bisogno di aspettare le storie, il fatto è chiaro da tempo: il tradimento è degli intellettuali, nel giornali, ai talk show, nelle università nelle scuole, al cinema. Ancora uno sforzo sarebbe necessario, semplice, propriamente intellettuale. Berardinelli cita Orwell e Simone Weil, che sono al centro del Novecento europeo, ma non in Italia. Basterebbe dire perché, e la missione sarebbe compiuta, con merito. L’intellettuale ha ancora uno statuto privilegiato in Italia, diversamente che negli altri paesi europei, o negli Usa, ma ancora per quanto? A parte l’autoreferenzialità.
Alfonso Berardinelli, Che intellettuale sei?, Nottetempo, pp.95, € 7

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