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sabato 22 febbraio 2014

La prigionia fa bene all’anima

 “Stile, ricerca, sintassi… che buffe parole quando tutto proclama che «la parola è oggi al cannone», si dice il poeta soldato prigioniero di guerra. E invece è, nella realtà, il contrario: il poeta se ne meraviglia, ma gli istinti vitali sovrastano la cattività.
La raccolta comprende dieci frammenti di memoria, scritti quindici-venti anni dopo il 1944, che il soldato Sereni passò in prigionia in Algeria. Forse nel dicembre 1956, sicuramente prima del 1962, quando confluirono in “Immediati dintorni”, la raccolta di prose che Giacomo Debenedetti aveva convinto Sereni a pubblicare, per le sue “Silerchie” del Saggiatore. Immagini sorprendenti, per capacità di adattamento, euforie incontrollabili, resurrezioni, che Dante Isella ha riassemblato in memoriam per questa edizioncina numerata di Via del Vento a Natale del 2000. Arricchendole del frammento più lungo, “Il male del reticolato”, redatto a caldo nel 1945, prodromo alle liriche del “Diario d’Algeria”, 1947. Nel quale il poeta-ufficiale, impersonandosi nell’ufficiale poeta morto al campo, dopo aver riempito il giornale murale dei prigionieri delle sue liriche, si chiede appunto cosa fa la poesia. È un’epoca (la guerra) e una condizione (la prigionia) di fatti che s’impongono alle immagini, di “quattro o cinque sentimenti elementari”, da sussistenza, da sopravvivenza. E tuttavia miracolosi.  
Sono prose che al lettore parlano più e meglio delle prime impressioni confidate ai versi del “Diario”. Del poeta che infine non è più isolato. Nel campo è anzi richiesto e in qualche modo venerato come l’artista, o il filosofo – “qui tutti leggono, scrivono, prendono appunti”. La prigionia come un ritorno al paradiso terrestre, di operosa inattività e cieca fede nel mondo. Una singolare sostituzione tra prosa e poesia: la prigionia fa bene all’anima, e viene meglio in prosa.
Vittorio Sereni, Taccuino d’Algeria (1944)

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