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giovedì 20 febbraio 2014

Vita inutile di spia, o l’Inghilterra vanesia

“Gli egoisti non capiscono l’ironia”, scriveva qui Banville prima di farsi “Benjamin Black”, e concorrere al Nobel coi gialli così firmati, unico prosatore, così assicura nell’autoritratto su wikipedia, nella linea Joyce-Nabokov - o in quella James-Nabokov (o meglio ancora in quella Joyce-Beckett, tutta irlandese). Avendo rinunciato al genere trilogie con cui s’era fatto un nome. Grande narratore, bisogna dire, poiché avvince sul nulla. Sulla vita – bugiarda – di una spia per posa, sir Anthony Blunt, con gli amichetti di Oxford e Cambridge tutti spie gratuite di Stalin, nelle pause dagli orinatoi pubblici, nell’“aria coitale”, sotto cieli “color glande”. Ma non più di tanto, non fa qui il romanzo “straordinario” di Citati che ha coinvolto alla lettura, “forse il più bel romanzo europeo degli ultimi cinquantanni”.
Anzi: un romanzo noioso, se uno non ha il prurito dell’amore gaio. Anche sbagliato, storicamente: “Le questioni più serie ci divertivano”, Banville fa dire al suo personaggio, che espone mediocre come tutti, benché lo accrediti come l’innovatore, anzi il creatore, dell’iconologia: “Le questioni più serie ci divertivano”. Sir Anthony Blunt era persona e personaggio ben più poliforme e diversamente abbordabile di questa narrazione, che lo appiattisce a due dimensioni, la foia e il tradimento. Era omosessuale dichiarato, quando non si poteva, e gli inglesi non perdonano, il moralismo gli piace troppo. E forse non era nemmeno spia. Può aver preferito in guerra Lenin a Hitler o Mussolini, ma era “un monarchico sincero” – è l’ovvia constatazione di chi lo frequentava, come Alvar Gozáles-Palacios. E uno studioso, unicamente interessato ai suoi studi – che in Sicilia e a Roma è rispettabile e rispettato.
Una storia molto inglese, come tutte le spy stories. A meno che non sia una irlandese vindicatio, contro l’inglese puzza al naso. È una rappresentazione massacrante della vanità inglese, col Querrell-Graham Greene e altri personaggi a chiave compresi. Ma allora tanto più sarebbe vento utile rappresentare il caso di spionaggio così come si è svolto, come una campagna isterica contro quella manica di buggeratori cantabrigensi e oxoniensi, la sola prova dello spionaggio essendo stata infine la confessione di Blunt. Che disprezzava i compatrioti, la loro patriottica stampa
Resta che le spie, fuori dei thriller, sono deludenti. Banville-Benjamin Black deve saperlo. “Ho sperperato la mia vita raccogliendo informazioni inutili?”, si chiede l’eroe all’inizio della storia. Eroe per modo di dire, giacché le spie di Cambridge erano note alle spie della regina. E intoccabili per sentimento di casta (furono ostracizzate su insistenza americana), in uno spionaggio inteso come gioco di abilità. Sarebbe stato questo il vero romanzo, per un irlandese poi, del dilettantismo di cui Londra si fa bandiera, o della forza dello snobismo.
John Banville, L’intoccabile

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