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giovedì 6 novembre 2014

La donna divorante

Il film, rivisto, è sempre una storia d’amore finita male – la storia del primo amore, della iniziazione. E una lettura ammodernata di Marivaux, che in altri film il regista tunisino si è divertito a rileggere, qui della “Vita di Marianna”. Verbale, come il modello, ma anche fisica: una rappresentazione di voracità, di cibo, baci, masturbazioni, accoppiamenti dettagliati e prolungati. Senza i quali probabilmente, dimezzandone le tre ore, il racconto avrebbe ugualmente retto, se non meglio. Se non che per questo, forse, è stato celebrato e premiato a Cannes. È anche, come gli altri flm di Khechiche, prepotentemente pittorico. La copia è curiosamente assortita al celebre foto ritratto di Man Ray, 1936, “Nusch Éluard e SoniaMossé”, la bella donna confidente e l’artista volitiva. Come nella copia del film. La nuova impressione è di un singolare flop, quasi un autogol, nel suo assunto principale: la rivendicazione della normalità omosessuale.
Il film ne è anche un manifesto, nei dialoghi e nelle insistite scene di sesso. Da film-verità. Ma su questo aspetto cozza con se stesso: la storia è un lungo, lento, perciò più crudele, benché senza coltello, caso di femminicidio tra femmine. Una delle quali è riservata, sfruttatrice, cattivissima.
Il rapporto è intenso e breve. Si consuma al suo proprio calore, si sarebbe detto delle vecchie storie. Adele è una quindicenne, curiosa, anche assetata d’amore. Solo che qui l’esito si anticipa, nell’egotismo assoluto dell’artista che la seduce. Una ingorda avara. La usa, anche come modello, di cui si farà un successo, e la scarica, con durezza. Maschilista pure nella violenza. Quasi che il ruolo fosse ineliminabile, del maschio eterosessuale, anche senza l’organo. Una virago – vir-ago - appena dissimulata nella foja
L’autogol – o è un gol? – è anzi doppio. Una forte misoginia la rappresentazione istiga, la donna trasponendo da madre divorante in compagna divorante.
Abdellatif Khechiche, La vita di Adele


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