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giovedì 10 marzo 2016

La vera storia di Lampedusa

Meryl Streep avrà avuto molte ragioni a Berlino, al festival del cinema, per premiare Rosi. La luce grigia. La maestria delle riprese e del montaggio. Le immagini parlanti, mai mute (superflue). Un parlato essenziale, pregno. Un Mediterraneo indifferente. La capacità narrativa: tante scene resteranno memorabili, la filosofia della fionda, la lezione d’inglese, il caffè dei vecchi coniugi, la radio locale, il subacqueo solitario, il dialogo notturno con la civettina, la mangiata frontale degli spaghetti al sugo di seppia. E poi c’è il soggetto certo, l’immigrazione. Lo spessore umano di questa storia accelerata, febbrile, quasi inverosimile - come di mandrie di bisonti, di zebre, di gnu, alla prima luce, incerta, nel bush africano. Ma piace pensare che abbia voluto il premio perché infine vediamo cosa succede. Vent’anni di sbarchi e ecatombi, 400 mila arrivi, 15 mila morti. E giornali, giornalisti e tv a centinaia ogni giorno sull’isola, a migliaia, che non hanno visto nulla e non ci hanno detto in realtà nulla.Il film è esteticamente molto bello: semplice ma curato in tutto, nei dialoghi, le psicologie, le ambientazioni, perfino nell’uso del dialetto, per chi può seguirlo. Ma è infine, senza volerlo, senza polemica, un film verità. Prodotto – va aggiunto poiché si celebra come un successo del made in Italy – dai francesi di Arte.
Gianfranco Rosi, Fuocoammare

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