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sabato 27 giugno 2020

Napoli col sorriso

“I napoletani muoiono sempre di qualcosa”. O: “Solo da pochi decenni si è scoperto che, a Napoli, d’inverno fa freddo”. A Napoli, dove c’è già un “dispositivo cerimoniale” (Derrida è dunque un copione, e senza la cerimonialità?), molto prima del dpi, dispositivo di protezione individuale, che  la melopea del coronavirus ha inventato – la mascherina, per intendersi, i guanti di gomma e il gel. Una scorribanda linguistica, e comportamentale, nella Napoli tra le due guerre, la prima età dell’autore, dettagliata, documentata, per ridere, che riletta fa già storia del costume, remoto – il cambiamento va oggi di fretta, anche se di segno incerto.
La vita di Napoli Pazzaglia autore comico vede tutta una comica, un teatro. Il lettore ci trova quello si aspetta da “Napoli”, ma anche molto di più. Il primo mobile radio, alto due metri. La visita di regalo per l’onomastico. O “il serio pericolo di possedere una penna stilografica”. Il “femminella”. La “zoccola”. Il Rione Sanità e la funzione comunicativa del “paniere”. “Mi piange il cuore”. “Abbiamo già dato”. “Romanzo con troppi protagonisti” Pazzaglia sottotitola il libro, ma è un repertorio della Napoli che fu, quale era. Prolifico autore di farse, e di sceneggiature, da ultimo personaggio tv (della congrega simpatica di Arbore), Pazzaglia ha memoria minuta della vita minuta dei suoi primi venti anni, di prima e dopo la guerra. Nel vicolo, nel rione, in casa, in chiesa, in case che sono spesso ex monasteri (la nazionalizzazione massonioca postunitaria che subito indignò, nel 1862, il patriota Pasquale Villari).
Una carrellata deliziosa, benché di repertorio, e preziosa già per la filologia, ma malinconica. Come sempre avviene peraltro ai napoletani in esilio. O a tutti gli esiliati, ma i  napoletani sono in più gran numero e hanno più cose da raccontare, tra sensi di colpa e bisogno di (ri)vendicarsi, di se stessi e di chi li ospita. 
Riccardo Pazzaglia, Partenopeo in esilio


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