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lunedì 30 settembre 2013

Gli Usa e il fondamentalismo islamico

Quindici anni fa si poteva registrare una caduta simultanea e imprevista del fondamentalismo islamico, che era stato per lunghi anni marea millenaristica incontrollabile sul lungo fianco sud dell’Europa, insieme con la sua deriva terroristica, apparentemente inscindibile. Era scomparso in Algeria, dove giornalmente il terrorismo fondamentalista scannava dozzine di persone. Al punto che il neo presidente Buteflika poteva amnistiare nell’estate del 1999 oltre tremila esponenti del Fis e del Gia, le organizzazioni integraliste. Era improvvisamente cessata, con gli aiuti sauditi, la caccia ai cristiani in Sudan. E i Talebani dell'Afghanistan erano andati a Washington a offrire la testa di Bin Laden, allora misterioso saudita, ubiquo finanziatore di terroristi senza volto, Gli integralisti israeliani, su un altro fronte ma sullo stesso scacchiere, erano entrati nel governo laburista di Barak, che voleva fare pace piena con tutti gli arabi.
La pace non si fece, Sharon non lo consentì, i palestinesi si fecero kamikaze, e Bin Laden è emerso con  le Torri Gemelle. Il cui enorme effetto, simbolico, militare, radicale, è lontano dall’esaurimento. Ma è solo dopo l’attacco agli Usa che per la prima volta gli stessi Usa, e quindi l’Occidente, non finanziano il terrorismo islamico. Per cinquant’anni sono stati i sauditi e i principati del Golfo, tutti regimi legati agli Stati Uniti, a finanziare Al Fatah. Gli Stati Uniti hanno dato per anni asilo e visibilità al Gia algerino a Chicago. Dopo avere abbandonato lo scià in favore di Khomeini nel 1978. Che successivamente hanno riarmato, con l’imbroglio Iran-Contra dell’altro fondamentalista Reagan.
L’imam Khomeini, che darà la cifra al nuovo militantismo islamico, era un vecchio arnese della politica iraniana in esilio in Iraq, riciclato trionfalmente sotto l’ombrello occidentale, al riparo dei servizi segreti francesi, con consulenti all’immagine e alla comunicazione americani. Mussavì Khoinià, che aveva organizzato nel1980 il rapimento dei residenti all’ambasciata Usa a Teheran, ci si rivelò in un’intervista esclusiva per “Repubblica” quale responsabile del rapimento degli ostaggi in un momento preciso: per dire al Majlis, il Parlamento iraniano, che ne stava discutendo, che gli ostaggi andavano liberati e non giustiziati come spie.
Si può anche dire che l’Occidente è stato sempre per l’islam, in funzione di diga al comunismo. Già contro Settembre Nero, nel1970, la Legione Araba di re Hussein era sostenuta dalle truppe pachistane del generale ul Haq, note per essere islamiste. Ma in due fasi distinte e con modalità opposte. Un distinto cambiamento c’è stato circa trent’anni fa nella politica americana verso il Medio Oriente.
C’è speciale attenzione da circa trent’anni nella politica americana verso il militantismo islamico, che ha rafforzato, anche militarmente, e ha consacrato. Persistente anche oggi che gli stessi Usa sono sfidati da questo fondamentalismo: in Afghanistan, Iraq, Egitto: la reazione è infatti, malgrado l’impegno contro il terrorismo, di acquiescenza. In Libia e ora di Siria, anzi, di sostegno. Come già avevano fatto in Iran, “consigliando” il passaggio dei poteri dallo scià a Khomeini. E in Pakistan, dove l’ultimo loro affidatario bonapartista prima di Musharraf, il generale Zia ul Haq, ebbe il compito primario di riempire il paese di madrasse e moschee. Successivamente tenteranno anche in Algeria di coprire il vuoto di un potere corrotto col sostegno al Gia islamico.
Negli anni Cinquanta e Sessanta gli Usa si sono sostituiti a Francia e Gran Bretagna nel mondo arabo con la modernizzazione. Dall’Egitto, coi Giovani Ufficiali di Neguib e Nasser nel 1952, a Gheddafi nel 1969, passando per Assad e Saddam, portata dalle forze armate. In Maroco e Giordania sotto la direzione dei sovrani.
Ma con la presidenza Carter, con Zia ul Haq sin Pakistan, che costuì ventimila fra moschee e scuole coraniche,  e poi con Khomeini in Iran, gli Usa hanno distintamente cambiato strategia: hanno eletto a strategia diplomatica e militare il militantismo islamico che aveva loro consentito di battere i sovietici in Afghanistan – l’inizio della fine del blocco sovietico.
C’è un momento di verità su questo nel volgarissimo “Fahrenheit” di Moore: i sauditi sono stati a lungo i finanziatori benevoli e scoperti del radicalismo islamico. L’attacco alle Torri ha veramente colti di sorpresa sia l’Arabia che gli Usa: non tanto per il difetto di intelligence quanto per il crollo di una strategia. Ma la reazione Usa è stata improntata alla vecchia strategia. In Irak avrebbero potuto Saddam con Tarek Aziz, e con uno qualsiasi dei suoi generali, e invece hanno smantellato tutto per consegnare il paese alle oligarchie sciite e sannite. Anche a costo di subire le divisioni incancellabili tra le confessioni e dentro le confessioni. Altrove il fondamentalismo è sostenuto benché già in perdita: in Tunisia, Egitto, Libia, Siria.

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