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giovedì 18 gennaio 2018

Crollano giornali e giornalismo

Meno 25 mila copie “la Repubblica”, che va verso le 150 mila media quotidiane, meno 10 mila il “Corriere della sera”, che va verso le 190 mila giornaliere, la crisi di vendite si è accentuata nel 2017 per i giornali – i due maggiori quotidiani partivano dieci anni fa da oltre 600 mila copie vendute al giorno.
Colpa delle nuove abitudini di lettura, si dice. Ma la colpa è soprattutto dei giornali stessi, ognuno lo vede, se ancora li compra. Infarciti di roba inutile e anche dannosa: decine di pagine di politica per illustrare i potenti, e di inserti pubblicitari mascherati (moda, maschile, femminile, salute, viaggi, arredamenti, cucina). Roba che non interessa nessuno. E che, se è pubblicità, perché comprarla? È la fine del giornalismo si può dire, autoindotta più che imposta dal mercato.
Se il minacciato dissolvimento della Rai, che i 5 Stelle e la Lega agitano, si concretizzerà, sarà allora anche la fine materiale della professione. La fine cioè delle istituzioni che materialmente ne garantiscono l’autonomia: la cassa pensione e la mutua sanitaria. Di cui la Rai è il massimo e anzi decisivo contribuente.
Il mestiere è già imbastardito. Niente più praticantato, selezione, controllo. Niente più caccia alle notizie. La notizia è quella che la fonte vuole, banchieri, affaristi, mafiosi, giudici, politici. O degli uffici stampa, istituzionali  ministeriali, aziendali. Il giornalista è giù un pubblicista. Nel senso proprio del termine: fare pubblicità.
La professione torna alle origini, agli “avvisi” e ai “novellanti”. Che nel Cinquecento facevano la giornata fornendo “avvisi” segreti alla gente di denaro, mercanti, banchieri, principi e cardinali. Chiacchiere, indiscrezioni, gossip. La notizia merce.

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