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martedì 19 maggio 2020

Scalfari, o dell’inquieta felicità

Il protagonista ha l’età dell’autore. Che lo segue, nell’infanzia tormentosa, nell’adolescenza, poi in guerra, a El Alamein nientemeno, e nel dopoguerra capitano d’industria, onesto per quanto può. Di temperamento oblomoviano, se non per le decisioni obbligate. Di pochi o scarsi affetti, confusi. La storia scandendo per grandi blocchi, il più sostanzioso naturalmente è il dopoguerra, della “crescita”, fino al terrorismo. Che non intacca la solidità su cui il personaggio si adagia – la semplicità, della cosa giusta da fare – ma ne accentua l’isolamento, per quanto orgoglioso.
Già pubblicato con Rizzoli, nel 2001, dopo il ritiro della gestione di “Repubblica, prima delle prove filosofiche e le incursioni poetiche, il romanzo di Scalfari sembra un’esplorazione dei propri mezzi. Partendo da mademoiselle de Scudéry, “la noia si porta nel cuore e per non annoiarsi mai bisogna sfuggire se stessi”, e quindi dal lezioso, un po’ saccente. Finendo con “I sepolcri”, ma per chi sa,  con un accenno minimo: “Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,\ ultima Dea, fugge i sepolcri”. Le generazione del dopoguerra, industriosa e costruttiva, si perde alla maturità, negli anni 1980, tra la corruzione e il terrore. Scalfari la guarda da remoto, prossimo ottuagenario, lui stesso poco felice – poco sicuro della sua felicità.
Il protagonista sa “di possedere contemporaneamente molte personalità, anzi d’esserne posseduto”. E avrà una vita – il romanzo – pessoviana, di “affollata solitudine”. Con  una propensione marcata per il ménage à trois - in Scalfari, più che nel personaggio – come in Goethe (strane coincidenze rivelano letture occasionali, n.d.r.): la co-protagonista ne ha visione fuggevole, alla penultima pagina, di “tre persone su tre collinette disposte a triangolo”. Affollata di personaggi dal vero, riconoscibili sotto i nomi di fantasia: Tibaldi-Mattioli, il banchiere scanzonato e risolutivo, il “de Breteil” presidente di Confindustria, produttore di bretelle (Alighiero De Micheli), il primo centro-sinistra, quello vero delle riforme, la Montecatini, poi Montecatini-Edison, infine le Generali, al centro degli affari per due lunghe decadi. Con originali, esclusive, attaches calabresi: in un paio di personaggi, nei peperoni verdi “berretta”,  e nell’uso del dialetto, una novità nella narrativa italiana - reminiscenza dei due anni che Scalfari passò a Vibo, per evitare la possibile epurazione del padre, funzionario pubblico, e la penuria alimentare.
Un romanzo sconclusionato. Scalfari le prova tutte, anche la battaglia al secondo capitolo, come il Fabrizio di Stendhal – rifà Alamein, in dettaglio: un’esercitazione sulle tante ricostruzioni che ne sono state fatte. Gli amori non amori, per reticenza, per sfortuna. Gli affari che vanno bene e vanno male per asserita razionalità – mentre si sa che vanno a caso. Il racconto di una vita felice – l’intermezzo calabrese la sintetizza. La madre sognata. Gli affari buoni. Gli amori quanto basta. 
Un Eugenio divertito e divertente – come avrebbe voluto essere, scanzonato – “calabrese”? “Anche tu stai diventando vecchio”, scrive il pigmalione americano in un lettera-testamento dal buen retiro  in Missouri dove si è ritirato a pescare all’ex giovane capo azienda per il quale ha lavorato, “hai una bella famiglia, sei potente e rispettato.Per essere felice ti è mancata la cosa più importante: la capacità di amare e di ricevere amore”. Sic transit gloria mundi è la chiusa del romanzo, un altro capriccio di Scalfari?
Eugenio Scalfari, La ruga sulla fronte, Einaudi, pp. 281 € 11,50



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