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sabato 23 maggio 2020

Andreotti o la santità della mediocrità

Trent’anni fa, gorno più giorno meno, si annotava:
“Elogi a tutto campo a Giulio Andreotti , abilità, umanità, cultura, sapienza, eccetera, alla presentazione del suo ultimo libro, “Gli Usa visti da vicino”, da Ugo Stille e Furio Colombo (Andreotti ha replicato: «Dovrei forse farmi un po’ di autocritica, criticarmi io stesso, ma abbiamo poco tempo perché devo correre alla Camera»).
“Un po’ incide la captatio benevolentiae del potente. Ma più incide la popolarità del tipo Dc. Stille e Colombo sono, per la storia personale, anti-Dc, ma a Andreotti si sono prosternati.
“C’è ormai un’identificazione del paese con la Dc, asta che assuma la faccia arguta di Andreotti, non ci affoghi nella crisi economica, e nella corruzione, non uccida troppe persone. Scompaiono, nonché le pretese di riforma, perfino le richieste di buongoverno, o razionale uso delle risorse, di una politica che non intralci così robustamente il benessere.
“Forse l’Italia non cambia perché non vuole cambiare. È un figlio cresciuto che non ha più la voglia, nonché il coraggio, di fare una sua vita indipendente. È inevitabile, 45 anni sono due generazioni, l’Italia diversa si fa sempre più rara. Per l’alternativa ci vorrà prima uno scossone molto forte: crisi economica, scandalo, strage.
“Così, nella palude, Andreotti diventa il «segnato di Dio», poiché ha potuto fare e disfare con una percentuale di obbrobrio altissima  (80-90 per cento? La gestione della Difesa negli anni Sessanta, il governo con i missini, Moro… sono abissi non colmabili). E dimostrarci che non c’è nulla di meglio della mediocrità. Di più popolare”.


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