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lunedì 11 aprile 2022

Era ieri che l’Africa si voleva regina

Sembra di essere nel vivo dell’Africa di cinquant’anni fa. Anche per la pellicola, che dimostra tutti i suoi anni. Doveva essere un’anticipazione di Wenders e “Buena vista Social Cub”, un documentario su un megaconcerto di cantanti africani soul, ma è stato infine montato solo nel 1996, e riciclato sull’“incontro del secolo” per il titolo dei pesi massimi, nella stessa Kinshasa, dove si era tenuto il concerto.
Un’opera semplice, che suscita una serie di forti impressioni. Si suda a Kinshasa, con la sensazione di mosche puntute anche se non ce ne sono. Si risparmia sull’elettricità, e quindi sull’aria condizionata. Il militare chiede sigarette. Con voce incerta, appesantito dal khat o dall’età. Non c’è dubbio che una sigaretta non fa differenza con un milione, e che uccidere non ha un senso per lui, non eccezionale. I militari improvvisano blocchi, buttando un tronco di traverso, dicono bakhshish, lingua franca, la bagasciscia dei portuali a Genova, e prendono qualsiasi cosa uno voglia o non voglia dargli. Del generale Mobutu, il nuovo padre della patria, si dice che tenga la prigione politica sotto lo stadio, dove si giocano le partite di calcio, e si terrà la sfida del secolo. Gli sguardi sono velati. Non hanno più la madrepatria e il re del Belgio, ma non si sono liberati. Astiosi, ladri, vendicativi, tradizionalisti stantii, anche quando la tradizione non è inventata. Un modo d’essere che non si sa quanto mediato dai coloni.
La città è ferma, nell’attesa di Foreman-Alì, la sfida del secolo. “L’avvenire è degli africani”, il generale assicura dai muri, e ai due africani più noti paga cinque milioni di dollari ognuno, una somma importante, anche per lo Zaire, per strappare la boxe ai bianchi. Che volentieri si arrendono, sono arrivati in folla. Soprattutto gli scrittori Usa, se ne potrebbe fare un’accademia, Mailer in testa, esperti di boxe, che tutti in vario modo s’ingegnano di entrare a corte da Mobutu, la regalità, seppure africana, ha sempre il suo fascino. La prigione si fantastica sotto lo stadio perché le urla dei tifosi coprano le torture. O che Mobutu vi liberi tigri inferocite, perché no, il generale è di cultura classica. Classico è lo sfruttamento africano degli africani, di una tribù contro le altre, del meno nero contro il più nero, dei furbi, dei ricchi. Socialista è pure il generale, sorridente a ogni canto, con occhi non cattivi, c’è eguaglianza nell’abiezione.
L’idea è di Ronnie King, che naviga in limousine, bucaniere nero, impunito benché americano, a Kinshasa si può. King è compagno di scuola di Cassius Clay. Era con lui quando gettò nel fiume Ohio la medaglia d’oro di Roma, dopo essere stato respinto in un ristorante per bianchi. C’è James Brown, “Say I am”, un nuovo rock, che dà potenza al recitativo, ci sono B.B. King, Miriam Makeba, il rythm ‘n blues, l’Africa. E un Foreman tranquillo, potente e virtuoso. A Città del Messico nel ‘68 non infierì sul sovietico Chepulis in finale, giustificandosi: “Mia madre mi guarda in tv, non vuole che faccia male agli avversari”. Dice: “Africa is the cradle of civilisation. Everybody is at home in Africa”. È un sillogismo, quello per cui se è vera la conclusione è vera la premessa, che però è constatazione grandiosa: si sta bene in Africa, culla della civiltà.
Cassius Clay straparla, ha paura, dopo gli anni che si è fatto di carcere per aver sfottuto i destrorsi Usa che l’avevano nel cuore, lui araldo dell’apartheid con Malcom X, i pugni di Foreman sono pesanti. Era un dio greco all’Olimpiade di Roma, quando l’Italia finì di perdere la guerra, avendo vinto quella dello sviluppo – il “balzo in avanti” del veridico tigre Mao. Si materializzò quattro anni dopo per costringere Sonny Liston, imbattuto col favore della mafia, al ritiro per un misterioso dolore alla spalla. E per abbatterlo in un minuto alla rivincita tredici mesi dopo in un borgo lontano dal pubblico, con un pugno che nessuno ha visto. Ora incita i bambini a incitarlo: “Yé, yé, buma yé”, spezzalo. “Muhammad Ali” imbolsito dalla pubblicità, la scena è romana adesso della decadenza, roba da Colosseo, è il ragazzo che correva dentro l’uragano senza bagnarsi. Sarà un imperatore decaduto, succedeva. “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”, disse da farfalla del ring, e un giorno gli storici diranno che ha cambiato l’America, la nuova è cominciata con lui.
I pareri sono divisi, tra i bianchi imparziali. C’è chi dice che nulla è meno africano di quest’americanata, che il romanzo degli africani del Novecento dovrà attendere. E che africano è in America peggio che negro: per i neri Usa l’Africa è ostile più che lontana. L’Africa c’è, al solito, per niente.
Il resto è noto. Foreman ha rinviato il match per un taglio alla palpebra sinistra. Poi ha strapazzato Clay per cinque round, e s’è fatto mandare k.o.. Clay ha inventato la più breve poesia del mondo, quando gli ex alunni di Harvard l’hanno invitato, duemila laureati, e uno ha chiesto: “Dicci una poesia”. Breve silenzio, e una risposta sintetica: - Me,we – io, noi (falso l’orrido “Me?Whee!” delle antologie, io?viva!)
Leon Gast, Quando eravamo re, Nuovo Sacher, Roma

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