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venerdì 2 gennaio 2015

Letture - 198

letterautore

Decadenza – Yourcenar la presagiva già nel 1929, giovane, dopo la prima grande guerra. Si poteva dire allora nel tempo. Meglio la dirà dopo la seconda guerra, nel 1958, ne “I volti della storia nella «Historia Augusta»”, pubblicato nel 1962 nella raccolta di saggi “Con beneficio d’inventario”. Ma a Roma la trova dopo meno di due secoli d’impero, a partire dall’assassinio di Cesare. E tre secoli e mezzo prima del crollo dell’impero stesso. Per effetto, soprattutto, della mediocrità degli storici della “Historia Augusta”. La decadenza è letteraria prima che reale: è lo spirito della crisi che determina la crisi?
La gloria di Roma peraltro Yourcenar, che pure era studiosa della classicità, attribuisce a “un piccolo numero di storici romani (e a un paio di storici greci)”, Plutarco, Tacito, Svetonio. Che si sarebbero inventato tutto?
Ma nell’insieme la decadenza è “problematica”: si nasconde, si ferma. “Niente di più complesso della curva di una decadenza”, scrive Yourcenar, ci sono degli alti e bassi: “Il regno di Adriano è ancora un vertice, quello del lamentabile Carino non è una fine”, quando la “Historia Augusta” si ferma. In realtà la decadenza non è una curva, la teoria dei cicli non la contempla, pur lavorando sui  trend: è un fatto, che a un certo punto si produce, magari se non si affronta. Quanto a Roma, Yourcenar prosegue imperturbata: “All’epoca in cui la «Historia Augusta» si ferma su Carino, Diocleziano è già presente; al salvatore Diocleziano succederà il salvatore Costantino, il salvatore Teodosio; centocinquant’anni ancora…” – prima di “chiudersi pietosamente sul figlio di un segretario di Attila, caratteristicamente rivestito del nome pomposo di Romolo Augustolo”.

Dissociazione  - In dottrina il gioco, non solo letterario, delle personalità multiple è sintomo di disturbi mentali e prodromo di morte. È il caso di artisti di peso, Hölderlin, Schumann, Jean Paul. Tutti tedeschi, è vero.
È del resto vero che tutti si muore. Che Hölderlin ha avuto felice e lunga pazzia. E che non sono impazziti i molteplici Pessoa o Kierkegaard. Ma è certo che il gusto di nascondersi rientra nel fenomeno delle personalità multiple, attualmente collocato al capitolo dei disturbi associativi, che ricomprende la vecchia categoria dei fenomeni isterici.

Grand Tour – Fu – ma è tuttora -  la fonte prevalente se non unica attraverso cui gli italiani si informavano dell’Italia tra il Sette e Ottocento. Attraverso il “colore” in buona misura, il pittoresco. Di quadri popolari e costumi facili, e di rovine greche e romane a cielo aperto. Di paese fatato di vacanza, specie culturale, a cui tutto si perdona, la sporcizia, la superficialità, l’incostanza, il ladroneccio. Una visione che si riverbera fino a diventare realtà. È vero che l’Italia è la seconda forza manifatturiera e esportatrice dell’Europa, ma con quanta fatica.

Lettore - Borges, dovendo scrivere dettando per la cecità, privilegia il genio del lettore: il lettore fa l’opera, dice. In un certo senso è così, non si capisce altrimenti perché il Cantico dei cantici è un testo sacro, o il Levitico.

Sospetto – Conviene a volte tenersi all’evidenza, a una sfida che venga lanciata. Non che la prova logica sia errata, finché uno non ci crede: mette il nemico in allarme, ma gli fa perdere tempo per la difesa.

È da Kant, dalle esperienze e le categorie, che la narrazione, prima libera e divagante, è concatenata: gli eventi intenzionali, benché soggettivi, non sono arbitrari. Su questa base si è poi costruito il giallo, il genere più popolare.

Proust – L’amore non è il tema del romanzo – né degli altri suoi tentativi. Se non nella forma della gelosia, intesa come possesso, e rielaborata in mille forme e pagine, fino alla piccola vendetta del pettegolezzo. Il suo amore è una partita di gelosia incrociata – se si eliminano le nostalgie, cioè la commiserazione di se stessi. È una forma di egotismo. Non confessato, e anzi mascherato di buoni sentimenti: discrezione, ammirazione, buon ricordo, una facciata di riconoscenza.
L’impossibilità di amare è il grande tema proustiano. Sarebbe, poiché è relegato sullo sfondo. Lo fosse, non sarebbe a somma zero, quale è, e anzi sarebbe mortale. Magari di consunzione, alla Dumas figlio.

Realtà – È l’irrealtà, dice Nabokov, dei romanzi. Meglio di “quei farseschi e fraudolenti particolari chiamati fatti”.

Rom – La parola, sostituita a zingaro, ritenuto infamante, è però anch’essa classista e discriminatoria: proteggendolo come dentro una sfera, come di proposito, nega il suo soggetto. Questo è vero in varia misura di tutto il linguaggio politicamente corretto, che appiattisce. Ma nel caso di un’identità che si vuole distinta ancora di più. La assimila, anche se non si sa a che – alle buone intenzioni? alla pubblica assistenza?
Dijana Pavlovic, rom di Serbia e attivista rom, intervistata su “Sette”, 12 dicembre, da Vittorio Zincone, si vuole – suo malgrado? - zingara, vi si conforma. Riconoscenza? “I rom sono un business. A Roma ce ne sono settemila. Per gestire i campi in cui vivono vengono stipendiati 500 italiani, nessuno dei quali appartiene alla nostra etnia. “Più aumenterà la disoccupazione e la povertà diffusa e meno saranno evidenti le differenze tra italiani e rom.I campi rom sembrano discariche a cielo aperto”, obietta Zincone. Io sarei favorevole a chiudere quei campi”, risponde Pavlovic: “La soluzione ideale sarebbe affidare ai rom delle piccole zone da autogestire: con luce, acqua e fognature. Responsabilizzandoli. Nei campi, invece, c’è una malsana abitudine all’assistenzialismo. Molti rom dicono: il comune ha stanziato i soldi per noi? E allora ci fornisca i servizi. Sia l’amministrazione a portare i bambini a scuola…. Senza colpe né sensi di colpa.
Pavlovic dice anche che i rom si sposano “spesso tra i 14 e i 18 anni”, e aggiunge: che male c’è? Anzi, si è fatta dire gagi, non rom, da una ragazza-madre di 14 anni in carcere, e vecchia: “Mi ha detto che sono vecchia, che ho avuto il primo figlio a 33 anni, cioè quando si dovrebbe diventare nonne. Che mio marito a cinquant’anni mi lascerà per una ventenne e che alla fine mio figlio mi abbandonerà in un ospizio. Ha aggiunto che lei, invece, non avrà tre lauree e un lavoro socialmente apprezzato, ma avrà sempre intorno a sé una famiglia, bella e numerosa. Senza disapprovazione.
Si può obiettare a questo modo di essere, aggressivo. Ma perché camuffarlo? Non faccio io la spesa”, conclude Pavlovic, “ci pensa mio maritoProbabilmente lei non sa più ballare, o se ne vergogna. E suo marito non sa suonare la musica tzigana, non ci pensa nemmeno. E questo è un danno per tutti. 
La poesia gitana già li aveva un po’ ingessati, il Cristo di Machado, il “Romancero” di Lorca. Ma la musica aveva una grande tradizione, onorata, in molte composizioni colte, in Spagna (e il flamenco?), a Vienna, a Budapest, e in Ravel, Enescu, Kusturica.

letterautore@antiit.eu

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Da rom a zingaro... E magari a zingaro. La deriva e' irresistibile?
DT

Giuseppe Leuzzi ha detto...

Zingaro? È solo fonte di malinconia a non sentirselo più dire dopo una vita.
“E magari a zingaro”, non sarà a zigano? La parola è di tradizione onorata.