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lunedì 31 dicembre 2018

Neo realismo Usa, o dell'ebetudine

Visto lontano dal clamore degli Oscar, un film malinconico,  della vita quotidiana in America come ebetudine. Nel Middle West, che negli Usa è il Sud Italia, dove il peggio si produce – il Sud avendovi conservato una sua nobiltà, per quanto perdente. Si dice questo “Tre manifesti” il film della “fine dell’American Dream”, ma è l’ennesimo, ormai non si contano più, ed è del genere demenziale, senza le risate. 
Non il pulp,  alla Leone o Peckinpah. Una sorta di “neorealismo” americano, introdotto nel 1975 da Altman, regista “europeo”, con “Nashville”, e dallo stesso indirizzato sulla stupidità – l’incantamento come stupidità. Una narrazione di forza, la forza dell’onestà. Di comunità confuse, nell’etica, nei generi, di donne virilizzate e uomini femminilizzati, nelle semplici convenienze quotidiane, senza un orizzonte.
Il commediografo irlandese McDonagh non può vederlo diversamente. Come già Wenders, in “Paris, Texas”. E i fratelli Coen con “Fargo” – anche loro americani ben “europei”, nel taglio della fotografia e del montaggio, nei dialoghi, nei “mostri”. Storie non di poveri e i ricchi. Non di cattivi e innocenti, violenti e buoni. Ma poveri, ricchi, buoni, cattivi tutti messi nella stessa rete, della stupidità: bere, cantare, sposarsi, lavoriccchiare, fare a pugni, bruciare, picchiare, essere picchiati. Senza odio e senza scopo.
“Tre manifesti” accumula una serie impressionante di eventi, anche drammatici, e molto drammatici, del niente: stupro, assassinio, tumore mortale, suicidio, incendi, aggressioni. Una sorta di catalogo redigendo dell’insensibilità – stupidità – made in America. Al meglio nevrotica. La vita di paese – di comunità – esibendo in una catena di nullità, imbelle, imbecille.

Martin McDonagh, Tre manifesti a Ebbing, Missouri

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