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giovedì 28 novembre 2019

L'esercito del disonore

Un film vecchio stile, ottocentesco sull’Ottocento, al modo della narrativa Ottocento. All male, ma di uomini nemmeno aitanti: macchiette, panzoni, fissati, ingolfati nelle divise rosso-blu dell’esercito, di panno rigido, nemmeno cattivi, quanto attenti alle gerarchie, e stupidi. Su un processo noto: l’incriminazione del capitano di artiglieria Dreyfus per tradimento. Dapprima sbagliata, per una lettura errata della sua calligrafia. Poi, per molti anni, falsa.
Nei due momenti, dell’errore e poi della falsità, serpeggia l’antisemitismo. Ma qui poco: Dreyfus è un colpevole di cui l’esercito non si vergogna, e anzi è contento, in segreto, dello scandalo, perché è un ufficiale ebreo. Ma soprattutto campeggia la stupidità: degli alti gradi dell’esercito, dei giudici militari, dei ministri, degli esperti. Mentre gli ufficiali di grado inferiori, gli esecutori, si limitano a obbedire: il tenente colonnello Picquart, che a differenza dei pari gardo si attiene ai fatti, finisce in galera.
Una storia, dunque, e un modo di raccontarla, non specialmente attraenti. Nessuna novità, niente sorprese, niente contorni – la relazione dell’inquirente con una donna sposata prende due o tre brevissime scene – e tutto in interni. Polanski, a 85 anni, non si è sprecato: il racconto dà di seguito, senza fronzoli, sottintesi, anticipazioni, senza nemmeno adrenalina. Dreyfus non è un eroe ma un mediocre, burocrate anche lui: sta al suo buon diritto di innocente quasi per stolidità.
Un racconto che semplifica molto, anche, la vera storia. L’antisemitismo nella vicenda fu feroce, ma fu dei giornali, che qui vengono tralasciati. Il “J’accuse” di Zola che invertì il processo non pose fine allo stesso: allo stesso Zola si fece un processo, che lo vide condannato. Dreyfus fu poi semplicemente graziato, la revisione del processo si fece dopo dodici anni. Questa parte c’è, ma in breve. La condanna e l’assoluzione sono solo il frutto di due diverse maggioranze politiche, o per essere più esatti massoniche, di due diverse confessioni. Ma questo si lascia intendere, non si dice. In scena è una sorta di esercito del disonore. E qui sta la sorpresa: che un polpettone non sottilmente polemico, scontato, semplificato, sia il grande successo della stagione in Francia, dove l’Armee è – era – intoccabile. Il generale Boisdeffre – veramente Le Mouton de Boisdeffre, il montone – capo di Stato Maggiore, è un macchietta, uno scemo. I ministri della Guerra che si succedono, il generale Zurlinden, pieno di sé, il grasso generale Billot, il debole Cavaignac, si lasciano fare da subordinati truffatori, e dalla stessa vera spia, l’ufficiale Esterhazy, un francese che odia i francesi ma evidentemente della Loggia giusta. O l’esercito non è più intoccabile, o la giustizia, anche in Francia, se entrambi sono stupidi, e “venduti”.
Roman Polanski, L’ufficiale e la spia

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