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lunedì 29 gennaio 2024

Indietro tutta nel mercato

La crisi del 2008 ha segnato l’inizio della fine della globalizzazione. Del sogno-disegno della ricchezza in crescita esponenziale libera - seppure con qualche ammaccatura, a scapito delle economie o dei ceti più deboli. “La globalizzazione era un programma politico di apertura completa dei mercati internazionali. Il concetto includeva la crisi dell’impero russo, le prime riforme cinesi, il «miracolo dell’East Asia» proclamato dalla Banca Mondiale, la ritirata ingloriosa del keynesismo di fronte all’incalzare della deregulation, la fine dell’interventismo degli Stati, la fiorente espansione dei traffici internazionali, che sembravano attestare il trionfo dell’ordine liberale nel mondo”. Un “triofafalismo liberista”, con qualche eccesso, “fino all’idea temeraria di «fine della storia»”.
È durata poco: “Dalle crisi del 2008 e seguenti è emersa l’assolutizzazione opposta, quella della deglobalizzazione”. Si pensò pure a “una ritirata generale dei capitali mobili” – immaginarsi una liquidazione dei titoli americani detenuti in Cina, un migliaio abbondante di miliardi di dollari… La xenophobia è sopravvenuta, il rifiuto della globalizzazione,  le istanze sovraniste, esemplificate dall’America First di Trump e dall’Ira di Biden, l’Industrial Reconstruction Act, programmi o promesse di “riportare o trattenere in patria posti di lavoro, capitali, tecnologie e redditi” – e materie prime. Senza dire dell’esplosione del debito pubblico ovunque nel mondo, dell’interventismo degli Stati, dapprima per salvare le banche poi per il covid e altre emergenze, che il mercato non sa affrontare.
Al netto della rituale retorica marxista-leninista, adatttta ai tempi, un’analisi perfino più dettagliata oltre che aggiornata, nel confronto delle cifre, dei mercati mondiali di quella celebre dieci anni fa di Piketty, “Il capitale del XXImo secolo”. Nei fatti, fra i tanti dati analizzati, due inequivocabili. Il rapporto della “componente estera” (esportazioni e importazioni) sul pil è in crescita nel mondo e nella Ue, ma ristagna in Cina e negli Stati Uniti. Nel mondo è cresciuto dal 14,7 del 2000 al 18,9 nel 2008 e al 20,3 nel 2022. Nella Ue (e con l’esclusione del commercio intra-Ue) è cresciuto dall’11,8 del 2000 e 2008 al 16,3 nel ’22. In Cina è calato nel 2022 – dopo un balzo al 31,1 nel 2008: il rapporto è scemato dal 20,6 del 2000 al 20,0. Negli Usa rimane stabile, ma poco incisivo, attorno all’8 per cento - 7,6, 8,7 e 8,1 nei tre anni di riferimento.
Segno decisamente regressivo per gli investimenti esteri diretti, in rapporto al pil. Nel Mondo, nella Ue, in Cina e negli Usa è in calo rispetto al 2007. Con una caratteristica che cozza contro la globalizzazione quale si idealizza: gli investimenti esteri diretti (le “multinazionali”) restano marginali – nella Ue sono stati elevati perché il dato tiene conto degli investimenti intra-Ue, per esempio dal Lussemburgo negli altri paesi.

Investimenti esteri diretti - valori percentuali, afflussi netti\pil, dollari correnti

                          2000    2007    2022

Mondo                 4,6      5,3        1,9

Ue (27)                8,7     10,0        2,5

Cina                    3, 6       4,4        1,0

Usa                      3,4       2,4         1,4
Nicola Capelluto, Crisi del debito e crisi dell’ordine, Lotta Comunista, pp. 868, ill. € 30

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