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sabato 11 ottobre 2014

Formidabili surplace d’infelicità

Un paio di volte è il ristorante, prima o dopo, che cambia gli umori, in peggio – una scelta sbagliata, dopo che nel prescelto non c’era posto. L’esito è uguale nelle altre situazioni: si fa – si è fatto, si pensa di fare – e si racconta delusi. Un trattatello “ecclesiastico”: tutto è debolezza e vuoto, in amore e senza, dentro e fuori la coppia. In forma di piccole confessioni (esibizionismi) psicoanalitiche, autoironiche certo. Il genere Woody Allen, senza il comico. Di grande virtuosità, fredda.
La maledizione biblica Yasmina Reza estende in minuti febbrili quadri ai minuti moti dell’animo e gesti quotidiani, di per sé ovviamente falsi (inutili) e ridicoli. Le rivalse dei deboli esponendo all’occhio beffardo del lettore. Che però si stanca: vi si riconosce ma con fastidio. Il titolo attraente è per una serie di “telefonate” – per tono e ampiezza - serrate delle macerazioni che sono dietro l’ananke quotidiana - la spesa, i bambini, i vecchi, gli amici, gli amanti, i medici. “Essere felici è un talento”, è una delle frasi che si citano dell’autrice, e in effetti è così. Qui il talento della bella e brava commediografa si perde a sottilizzare. Un rimestare estenuante. Abile: come segnare il passo – il surplace di cui Maspes era maestro, un ciclista. Esemplare del genere “fenomenologico”, a due dimensioni, senza spessore psicologico, anzi senza spessore, volutamente – “à vau l’eau” avrebbe  detto Huysmans un secolo prima, che però si professava decadente, alla deriva. Senza vero interesse, né critico né umano. Tutto può succedere in queste derive, che non sbalzano personaggi o storie ma si vogliono pattinamenti, scorrevoli. Esercizi di scrittura rapida, ma a una fine che non c’è. A parte l’amaro, in superficie.
Yasmina Reza, Felici i felici, Adelphi, pp. 163 € 18

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